Art. 18 e flessibilità: i soliti specchietti per le allodole!

Luca Pezzotta

15 Agosto 2014 - 19:39

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La continua richiesta di riforme strutturali che aumentino la flessibilità del mercato del lavoro italiano dove le tutele generali contro i licenziamenti individuali e collettivi sono già inferiori rispetto al mercato del lavoro tedesco e francese.

Art. 18 e flessibilità: i soliti specchietti per le allodole!

Alla fine, ancora una volta e come se ce ne fosse bisogno, la discussione sulle misure economiche necessarie per uscire dalla crisi che ormai ci attanaglia da molto più che un lustro si è infine spostata verso il mercato del lavoro e la sua flessibilità; ed ancora una volta nel mirino è finito l’art. 18 della legge n°300 del 1970 meglio conosciuta come “Statuto dei Lavoratori”. Il detto articolo, senza perderci in particolari dettagli giuridici che non possono qui nemmeno essere minimamente abbozzati, già oggetto di modifica durante il governo Monti, non regolamentava precipuamente il licenziamento individuale vietandolo – come per lo più ritenuto – bensì imponeva in capo al datore di lavoro che avesse ingiustamente licenziato il lavoratore, dopo aver espletato con successo la procedura giuridica (propria di “legge speciale” e non generale quale è) prevista all’interno del testo stesso della legge, l’obbligo di reintegro. Cioè, ancora, non vietava il licenziamento ma obbligava al reintegro; che potrebbe sembrare la stessa cosa ma invece non è così. Nata come normativa nella fase della c.d. “emergenza” sarebbe diventata ora vetusta ed obsoleta e necessiterebbe di essere riscritta, riveduta e, molto probabilmente, per qualcuno andrebbe perfino abrogata in toto, magari con altre normative che riguardano la tutela del lavoro.

Indipendentemente dalle questioni giuridiche sottese che, si ripete, non possono essere qui nemmeno minimamente vagliate, quello che emerge anche questa volta è un’ulteriore richiesta di flessibilità, ed ancora una volta avverso una normativa che era già stata oggetto di modifica da parte del governo Monti e che pone a carico della parte contrattuale debole, come sempre, il costo della riforma e della ulteriore “flessibilità” stessa. In prima istanza si fa notare che le modifiche apportate da Monti, visto il continuo peggioramento dei livelli occupazionali, non hanno avuto praticamente impatto e potrebbero quindi dirsi fallimentari, oppure non hanno ancora trasfuso i loro effetti nell’economia reale: si può mettere come si vuole, ma l’assenza di risultati non depone a favore della flessibilità, in quanto una normativa che ne ha avallato sempre quote maggiori non ha avuto risultati in termini occupazionali. Nonostante questo, quello che viene costantemente ripetuto da vari esponenti politici a livello italiano e, a livello europeo da eminenti figure come il Presidente della BCE Mario Draghi (italiano all’estero?!), è che abbiamo ancora una volta bisogno di riforme strutturali del mercato del lavoro!

E ancora, anche se queste continue ricette, che potrebbero bensì semplicemente definirsi ordoliberiste, a termini delle quali si incoraggerebbe l’occupazione dando la possibilità di licenziare in ogni caso liberamente e risolvere così il contratto unilateralmente (cosa da non sottovalutare in un ordinamento in cui la contrattualistica è prettamente consensuale), non sembrano funzionare, vengono comunque continuamente riproposte come la panacea di tutti i mali del mercato del lavoro italiano e soprattutto di quella mancanza di flessibilità dovuta ad una normativa che è troppo protettiva nei confronti della parte debole del rapporto contrattuale (il lavoratore) e che imbriglierebbe la parte contrattuale forte (quella datoriale) limitando fortemente il suo spazio di manovra e la sua “imprenditorialità”. Cerchiamo allora di vedere se la situazione così prospettata, cioè la mancanza di flessibilità dovuta alle eccessive tutele del mercato del lavoro italiano, sia effettivamente una realtà, oppure se sia ancora una volta un modo per scaricare verso il basso i costi sociali di una riforma da “ce lo chiede l’Europa”, senza presupposti fattuali reali che si basa unicamente su una asimmetria di informazioni che si vorrebbe sfruttare a proprio favore e con la quale si spera di far passare una cosa falsa come vera.

Prendiamo inizialmente il report del Fondo Monetario Internazionale di Aprile 2014, (IMF Country Report No. 14/102), relativo alla situazione del Portogallo dove troviamo un grafico (fonte dati OCSE) relativo all’indice di protezione del’occupazione in alcuni paesi tra cui il Portogallo appunto, ma anche l’Italia, la Francia, la Germania, ecc. ecc.. Il grafico riporta il livello di protezione dell’occupazione nel 2011 e nel 2013 (al 1° gennaio) e, come si può vedere dalla nota – per quello che ci interessa - ad un livello maggiore corrisponde una maggiore protezione dell’occupazione.

Vediamo che, avendo come sempre d’obbligo il riferimento all’esempio di virtù teutonica, in Germania (DEU) il livello dell’indice di protezione dell’occupazione tra il 2011 ed il 2013 rimane praticamente invariato; e così anche per la Francia (FRA). Per l’Irlanda (IRL) e l’Olanda (NDL) addirittura sale. E per l’Italia?! Per l’Italia l’indice di protezione dell’occupazione che nel 2011 era al di sopra di quello di Francia e Germania, nel 2013 è al di sotto; quindi se è vero che nel 2011 il nostro mercato del lavoro era più rigido (più protetto) di quelli francese e tedesco è anche vero che al 2013, dopo la “cura Monti” ma anche Fornero, la protezione dell’occupazione è già scesa ad un livello inferiore a quello della Germania, ed un po’ meno al di sotto di quello della Francia. Per cui il mercato del lavoro italiano è già meno protetto ora rispetto, per esempio, a quello di due economie di “riferimento” – almeno nell’immaginario dei più – come Francia e Germania.

Ma non potendoci accontentare di un mero grafico continuiamo prendendo una tabella dell’OCSE relativa agli indicatori sulla legislazione di protezione dell’occupazione al 1° gennaio 2013 in scala da 0 (livello minore di restrizioni) a 6 (livello maggiore di restrizioni), relativamente a vari paesi e che riguarda: la protezione dei lavoratori permanenti contro procedure di licenziamento individuali e collettive (prima colonna, EPRC), la protezione dei lavoratori permanenti contro procedimenti di licenziamento individuali (seconda colonna, EPR), i requisiti specifici per i licenziamenti collettivi (terza colonna, EPC), la regolamentazione di forme temporanee di occupazione (quarta colonna, EPT).

In Italia il livello di protezione dei lavoratori permanenti contro i licenziamenti individuali e collettivi (EPRC) nell’insieme è a 2,79 punti; quello della Germania a 2,98 e quello della Francia a 2,82. Quindi, la protezione dell’occupazione contro licenziamenti individuali e collettivi, nel complesso, è maggiore in Germania che in Francia ed in Italia, ed in Italia è anche inferiore che in Francia; ed è pertanto il contrario di quello che vorrebbero farci credere. Continuiamo con la sola tutela dei lavoratori permanenti contro procedure di licenziamento individuale (EPR): Italia 2,41; Germania 2,72; Francia 2,60. Anche per quanto riguarda la tutela contro licenziamenti individuali la Germania ha una legislazione più protettiva di quella di Francia e Italia e, tra le tre, proprio l’Italia ha quella meno protettiva. Ancora, per quanto riguarda i requisiti per il licenziamento collettivo (EPC): Italia 3,75; Germania 3,63; Francia 3,38. Per quanto riguarda i requisiti per i licenziamenti collettivi, perciò, la Germania è meno protettiva dell’Italia, ma più protettiva della Francia. Infine per le tutele delle forme di occupazione temporanea (EPT), l’Italia è a 2,71, la Germania a 1,75 e la Francia a 3,75. Quindi per la regolamentazione delle forme temporanee di lavoro la Francia è la più restrittiva mentre la Germania è la meno restrittiva. E qui si nota l’unico settore in cui probabilmente hanno influito le riforme Hartz, quelle che hanno creato un substrato di lavoratori temporanei - permanentemente temporanei si potrebbe dire - a bassa retribuzione, che si “arrabattano” tra continui lavori temporanei con tutele se non nulle quantomeno minime.

In conclusione come visto anche da una analisi appena più approfondita sugli indicatori utilizzati da due organizzazioni/istituzioni internazionali (FMI e OCSE) emerge, come nel grafico, che la protezione dell’occupazione tra il 2011 ed il 2013 in Italia è scesa al di sotto di quella francese e tedesca. Mentre quello che si evince dalla tabella è che in Italia il livello generale di protezione dal licenziamento individuale e collettivo (EPRC) è già inferiore rispetto a Francia e Germania; che anche il licenziamento individuale (EPR) è meno protetto in Italia, mentre è un po’ più protetto il licenziamento collettivo (EPC) e che l’unica parte del mercato del lavoro in cui la Germania primeggia per flessibilità è quella relativa ai lavoratori temporanei. Quindi i dati smentiscono ampiamente la favola che il mercato del lavoro italiano sia troppo tutelato relativamente ai lavoratori permanenti e contro il licenziamento individuale, visto che questo è meno protetto in Italia che in Germania e che, semmai, in Italia è appena un po’ più difficile il licenziamento collettivo; ed il vero e unico risultato della Germania si registra nell’occupazione temporanea, cioè nel rendere più precario chi è già precario.

Pertanto e ancora una volta si tende a portare la discussione fuori dai dati reali, probabilmente cercando di sfruttare una asimmetria informativa che spera proprio di far leva sulla mancanza di “approvvigionamento” di dati come quelli esposti e su una informazione fatta di motti e propaganda, che tende a scaricare la responsabilità dove non c’è, cioè, tanto per cambiare, ancora una volta sulla poca flessibilità del fattore lavoro. Queste politiche, checché se ne dica, si sono rivelate fino ad oggi fallimentari e proseguire sulla stessa strada potrebbe essere interpretato come un sintomo di cecità economica e politica, ma anche, visto i dati esposti, la possibilità per tutti di reperirli e tanto più per coloro che di certe cose si occupano, di una tendenza a non voler trattare secondo necessità e dati reali, ma rifugiarsi dietro ad un totem ideologico – con la strategia di rinfacciare l’uso dell’art. 18 come totem all’interlocutore stesso, qualsiasi esso sia – che come visto non può più essere considerato tale, per evitare di affrontare quello che è il vero problema: la mancanza di lavoro e la creazione di occupazione! Infatti pensare a licenziare più facilmente quando la disoccupazione è al suo massimo storico potrebbe non essere interpretato, soprattutto in relazione ai dati esposti, come segno di acume ed intelligenza politica ed economica; ma piuttosto ancora come atto di ossequio a quello che ci viene richiesto o, sembra meglio, imposto, da oltre confine!

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