Cosa rischia chi commette un femminicidio: in Italia c’è un problema giuridico?

Ilena D’Errico

1 Giugno 2023 - 22:21

condividi

In Italia c’è un problema giuridico sulla repressione dei femminicidi? Ecco cosa rischia chi commette questo reato e perché c’è ancora molto da fare.

Cosa rischia chi commette un femminicidio: in Italia c’è un problema giuridico?

L’aumento dei casi di femminicidio in Italia lascia intendere, nemmeno troppo velatamente, che la repressione di questo tipo di reati non è molto efficace. In effetti, da uno studio effettuato dal Ministero della Giustizia emerge che nel 70% delle sentenze sulle cause di femminicidio vengono concesse le attenuanti ai colpevoli. Le ripercussioni di questa tendenza sono facilmente intuibili: pene più brevi, talvolta nemmeno scontate per intero, e una forma quasi nulla di prevenzione.

Se l’origine dei femminicidi è indagata da diverse branche scientifiche, ad esempio la sociologia e l’antropologia, alla legge spetta il compito di reprimerli. Questo evidentemente non accade, perlomeno non di frequente e non con l’efficacia che ci si aspetterebbe da un ordinamento così attento. Allora ecco che si addita la legge, ci si chiede quale sia il problema giuridico che lascia una lacuna così profonda da lasciare i femminicidi puniti con un guanto di seta.

Eppure, la ricerca di un problema giuridico e normativo si arresta presto. La legge italiana non è così lassista sulla violenza, soprattutto su quella ai danni delle donne, vittime in quanto tali. È vero che sul punto si potrebbe far di meglio e che gli aggiornamenti sono abbastanza recenti (la legge sul Femminicidio è del 2014 e ha ricevuto un aggiornamento solo 4 anni fa), ma probabilmente anche un ulteriore inasprimento delle misure non sarebbe sufficiente. La base per cui esiste questo problema di scarsa punibilità non sono le norme, ma i processi. La facilità con cui ai colpevoli di femminicidio vengono concesse le attenuanti è dovuta quasi interamente alle interpretazioni dei giudici, con sentenze figlie di un retaggio patriarcale che mette i bastoni fra le ruote a qualsiasi tentativo di giusto processo.

Il problema giuridico sulle condanne per femminicidio, il sessismo giudiziario nei tribunali

Il problema dei femminicidi è tristemente sempre più attuale. È di poche ora la confessione del fidanzato di Giulia Tramontano, incinta di 7 mesi e brutalmente assassinata. Due circostanze che potrebbero dar luogo all’applicazione di due aggravanti previste dalla legge sul femminicidio (e non solo in realtà): la vittima in stato di gravidanza e l’omicidio da parte di una persona legata alla vittima da una relazione affettiva.

Chiaramente è troppo presto per pensare agli esiti del processo per l’omicidio di Giulia Tramontano, ma già ricordare che sono previste delle aggravanti per questo tipo di delitti è fondamentale, in un sistema giudiziario che invece sembra abusare delle attenuanti. La questione è stata affrontata, e lo è tuttora, da diversi giuristi. Valeria Valente, senatrice, presiede una commissione d’inchiesta sul femminicidio, con oggetto più di 200 sentenze. Lo scopo dell’indagine è chiaro: capire quanto i pregiudizi giudiziari abbiano influenzato le morbide condanne. Ciò che appare evidente negli atti giudiziari è una forma di de-responsabilizzazione delle gesta dei colpevoli di femminicidio.

I moventi sono molto spesso individuati in azioni esterne agli autori del crimine, spostando la responsabilità persino sulle vittime stesse. Probabilmente non è difficile immaginare quali siano le giustificazioni fornite nella maggior parte dei casi, ma a scanso di dubbi si riporta l’esito di una ricerca condotta dall’Università di Tuscia in collaborazione con Differenza Donna. Ebbene, dallo studio di 273 sentenze emergono tre principali forme di pregiudizio che attenuano la punibilità:

  • La riduzione degli atti di violenza alla lite familiare;
  • la gelosia, che di fatto colpevolizza le vittime e nemmeno troppo velatamente;
  • il raptus, come se alla base del femminicidio non ci possa essere quella volontà efferata.

Una tendenza che non si può nemmeno definire maschilista, in quanto a giovare di questi preconcetti non sono di certo tutti gli uomini, ma solo quelli che perseguitano, picchiano e uccidono le donne. In soldoni, i giudici italiani (per lo meno una parte di loro) stanno dicendo che gli uomini non sono capaci di pensare e razionalizzare le loro azioni, ma solo di vivere d’istinti. Un aspetto del problema offensivo e discriminatorio, tanto quanto i preconcetti sul genere femminile. È semplicemente il risvolto di un certo tipo di mentalità, un problema sociale di proporzioni gargantuesche, che a volte sembra avere un ruolo marginale nei dibattiti, ma solo perché si cerca dapprima di ottenere giustizia per le vittime.

Un problema su cui Paola Di Nicola, magistrata con una lunga attenzione alle tematiche giudiziarie “femminili”, ha speso lunghe analisi e riflessioni, e che definisce come sessismo giudiziario. Paola Di Nicola invita i colleghi della magistratura a formarsi, per saper riconoscere effettivamente la violenza sulle donne, e dar fine allo “stereotipo culturale per cui quello stupro, quelle botte sono la reazione a un comportamento della vittima”.

Non sempre gli aggressori vengono condannati e anche quando le condanne avvengono sono spesso alleggerite, questo è un dato di fatto che emerge dai fascicoli giudiziari ed è ancora più evidente nelle sentenze riportate proprio da Paola Di Nicola nel racconto reso a La Repubblica, tra cui si cita lo stupro di Casapound e «l’incosapevolezza» degli stupratori. I dati oggettivi parlano chiaro, una lacuna nei procedimenti c’è, anche se non deve ingiustamente macchiare tutta quella parte della magistratura che invece si impegna duramente per porre fine al pregiudizio.

Cosa rischia chi commette un femminicidio in Italia?

La legge sul femminicidio è servita a inasprire la repressione di tutti qui reati collegati alla violenza sulle donne, come lo stalking e la violenza sessuale, oltre a prevedere particolari sistemi di tutela per le vittime, come la possibilità di rivolgersi al questore, l’accesso al gratuito patrocinio senza limiti di reddito e l’allontanamento dell’aggressore. Il femminicidio in sé, però, non è punito in modo diverso da qualsiasi altro omicidio.

Le pene previste dal Codice penale sono applicate indipendentemente dal genere della vittima e dal movente ed è forse su questo punto che si può evidenziare una lacuna giuridica. Nessuna norma prevede un’aggravante per i femminicidi, che si ricordano essere omicidi compiuti ai danni delle donne, in cui il genere delle vittime è proprio il fattore scatenante. Un difetto su cui, per il momento, non è così assurdo chiudere un occhio.

L’articolo 575 del Codice penale, infatti, stabilisce una pena minima di 21 anni di reclusione per gli omicidi, condanna destinata a salire in presenza delle numerose aggravanti previste. Insomma, dal punto di vista normativo i deterrenti esistono, ma non vengono applicati. Così, per un esito che ha dell’assurdo, chi commette un femminicidio rischia di scontare meno rispetto a un altro omicida.

Iscriviti a Money.it