La crisi economica e il ruolo della BCE

Redazione

23 Settembre 2012 - 09:00

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La crisi economica e il ruolo della BCE

Concludiamo il ciclo di lezioni legate al tema del peggioramento dei conti pubblici con un contributo del Prof. Vincenzo Maffeo, ricercatore presso l’Università di Roma “Sapienza”, pubblicato nell’ebook uscito con la rivista Micromega online dal titolo Oltre l’austerità.

La crisi economica e il ruolo della BCE

L’Europa è in questo momento l’epicentro della crisi economica. La questione principale riguarda il debito pubblico di alcuni dei principali paesi membri dell’Unione monetaria europea. E’ in discussione, come è noto, la capacità di questi paesi di ripagare il proprio debito pubblico e di riuscire, allo stesso tempo, ad ottenere credito a tassi di interesse sostenibili. Le politiche di austerità fino a questo momento proposte e applicate stanno con tutta evidenza provocando una recessione generalizzata, con il risultato di aggravare la situazione dei paesi più indebitati.

Numerosi economisti, soprattutto americani, si domandano perché l’Unione monetaria europea non faccia ricorso, per contrastare la speculazione finanziaria internazionale e per rendere sostenibile l’indebitamento dei suoi membri, alla funzione della Banca Centrale Europea come “prestatore di ultima istanza”, anche modificando lo statuto della BCE che attualmente lo vieta. Si chiedono cioè perché la BCE non operi come la Federal Reserve americana, acquistando direttamente i titoli del debito dei paesi membri dell’Unione monetaria europea che, a causa delle tensioni sui mercati finanziari, sono costretti a finanziarsi a tassi di interesse tali da compromettere seriamente il benessere e la sicurezza dei propri cittadini.

E’ questa in realtà l’unica vera domanda che è stata posta, nel dibattito pubblico, in merito alla gestione europea della crisi economica. Per il resto si assiste semplicemente ad un profluvio di affermazioni sulla necessità di coniugare l’austerità e la crescita, senza che venga però fornita alcuna indicazione credibile circa il modo in cui questo improbabile binomio possa trovare una realizzazione concreta.

BCE come «prestatore di ultima istanza»

Sul ruolo della BCE come “prestatore di ultima istanza” nei confronti degli stati sembra tuttavia esistere un sorta di veto, che trova la sua principale espressione nell’atteggiamento del governo tedesco. E’ vero che l’autonomia della banca centrale dal potere politico è uno dei capisaldi dell’ortodossia economica, la quale assegna agli istituti di emissione il compito esclusivo, nell’ambito della politica economica, di contrastare i pericoli di inflazione.

E’ altrettanto vero, tuttavia, che non sembra certo essere l’inflazione il pericolo maggiore in una situazione che viene quotidianamente descritta con toni altamente drammatici. E non è d’altra parte senza significato il fatto che gli Stati Uniti, quando la crisi ha investito drammaticamente il sistema economico americano, non abbiano esitato a far ricorso a strumenti non ortodossi di sostegno del sistema bancario e delle finanze pubbliche.

Ci deve essere quindi un’altra ragione, senza dubbio di importanza non trascurabile, che si oppone ad un impiego più ampio e diretto della BCE per affrontare la crisi economica. Il fatto che questa ragione non venga dichiarata apertamente fa della domanda sul ruolo della BCE una sorta di punto di osservazione privilegiato per guardare all’attuale evoluzione della crisi economica in Europa.

Per comprendere le vere ragioni che si oppongono ad una modifica del ruolo che i trattati europei attribuiscono alla BCE è utile guardare ad uno dei primi esperimenti di autonomia di una banca centrale dal potere politico. Si tratta del “divorzio” del 1981 tra il Tesoro e la Banca d’Italia, quando quest’ultima venne sollevata dall’impegno di acquistare i titoli del debito pubblico che il Tesoro non riusciva a collocare sul mercato.

Lo storico “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia nel 1981

Il contesto nel quale si decise e si realizzò il “divorzio” è stato descritto dieci anni dopo dal ministro del Tesoro dell’epoca, Beniamino Andreatta, in un articolo sul Sole 24 ore. Nell’articolo Andreatta affermava di aver dovuto affrontare, all’epoca del “divorzio”, le conseguenze inflazionistiche del secondo shock petrolifero.

La “soluzione classica”, egli sosteneva, sarebbe stata quella di provocare – tramite “una stretta del credito, accompagnata da una stretta fiscale” – una “recessione con una caduta di alcuni punti del prodotto interno lordo”. A questa soluzione si opponevano però, affermava ancora Andreatta, due difficoltà.
- La prima era che, “fino a quando non fosse stata liberata dall’obbligo di garantire il finanziamento del Tesoro”, la Banca d’Italia non disponeva del controllo dell’offerta di moneta necessario a perseguire la stretta creditizia. Il bersaglio concreto che questa politica recessiva avrebbe dovuto avere, qualora fosse stata effettivamente perseguibile, era chiaro alla luce della seconda difficoltà che, secondo Andreatta, si opponeva alla sua efficacia.

- Essa consisteva nel fatto che, “in virtù del demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dell’accordo tra Confindustria e sindacati confederali”, anche una forte manovra recessiva non sarebbe stata in grado di arrestare la spirale inflazionistica: finché all’aumento dei prezzi avesse fatto seguito, per via del meccanismo di indicizzazione delle retribuzioni dei lavoratori, un aumento più o meno proporzionale dei salari, il processo inflazionistico non si sarebbe arrestato.

La scala mobile impediva, in altri termini, che il conflitto per la distribuzione del reddito implicito al fenomeno inflazionistico si risolvesse con una contrazione dei salari reali tale da bilanciare gli effetti dello shock petrolifero. Era dunque alle retribuzioni dei lavoratori che, nel disegno di Andreatta, andava addossato l’onere dell’aggiustamento antinflazionistico. Questo punto di vista aveva il sostegno dell’orientamento monetarista che si era ormai affermato nella teoria economica. Ciò nondimeno il suo significato sociale era inequivocabile.

Resta tuttavia, nella ricostruzione di Andreatta, una questione che non viene affrontata in maniera esplicita. Se l’eventuale autonomia della Banca d’Italia rispetto alle esigenze di finanziamento del Tesoro, e quindi l’effettiva possibilità dell’istituto di emissione di operare una stretta creditizia, non era in ogni caso ritenuta in grado di permettere un contrasto efficace dell’inflazione – a causa della presenza della scala mobile – quali effetti ci si attendevano da quello che Andreatta non esitava, nella ricostruzione sul Sole 24 ore, a considerare un cambiamento del “regime della politica economica”? La risposta a questa domanda è relativamente semplice, se pensiamo agli effetti di lungo periodo che il “divorzio”, nelle intenzioni dei suoi promotori, era destinato a produrre.

All’inizio degli anni ’80 la stagione delle grandi lotte operaie culminate nell’ “autunno caldo” era ormai finita. Nel 1980 c’era stata la “marcia dei 40mila” a Torino, considerata da molti il simbolo della sconfitta del movimento dei lavoratori. Ciò nonostante una politica economica recessiva, che avesse quindi l’effetto di accrescere la disoccupazione e di conseguenza il senso di insicurezza dei lavoratori, non era evidentemente ritenuta in grado di provocare quella diminuzione dei salari reali che Andreatta considerava necessaria per ridurre l’inflazione.

Da dove veniva, dunque, questa capacità di resistenza dei lavoratori nel conflitto per la distribuzione del reddito che vedeva i salari replicare ad ogni aumento del livello dei prezzi, riconquistando così almeno in parte il potere d’acquisto perduto? Essa non proveniva tanto dalla loro capacità di mobilitazione, che pure rimaneva non trascurabile, quanto dalle conquiste di carattere istituzionale che costituivano l’eredità della stagione delle grandi lotte operaie. Si è già detto della scala mobile, che limitava la perdita del potere d’acquisto dei salari in seguito all’aumento del livello dei prezzi.

Ad essa si affiancavano altre conquiste istituzionali che tutelavano direttamente i lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, come lo Statuto dei lavoratori o il contratto nazionale di lavoro. Allo stesso tempo, l’universalità di alcuni servizi pubblici essenziali, introdotta per esempio con la riforma della sanità, costituiva una forma di salario indiretto garantito ai lavoratori dalla fiscalità generale. Tutto questo aveva accresciuto il senso di sicurezza dei lavoratori, rafforzandone il ruolo nella società e nella rappresentanza politica.

In che modo il “divorzio” modificava questa situazione? Il venir meno dell’intervento della Banca d’Italia a sostegno dei titoli del debito pubblico che il Tesoro non riusciva a collocare sul mercato comportava la difficoltà per il governo di perseguire politiche fiscali espansive senza dover sopportare l’onere di tassi di interesse elevati e crescenti.

“La riconquistata autonomia della Banca centrale riduceva il finanziamento agevolato della spesa pubblica” avrebbe sintetizzato molti anni dopo Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia all’epoca del “divorzio”. Questa conseguenza del “divorzio” venne accentuata, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, dalla progressiva liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitale; la necessità di evitare massicci deflussi di capitale verso l’estero e, anzi, di attrarli per finanziare i disavanzi pubblici e il rimborso del debito richiedeva infatti tassi di interesse mediamente elevati e imposte sui redditi da capitale sufficientemente basse.

Con il “divorzio” venivano dunque a determinarsi le condizioni grazie alle quali al governo era nella sostanza sottratta la gestione della politica fiscale, ad eccezione dei casi in cui quest’ultima fosse di carattere restrittivo. Era questo che Andreatta considerava il cambiamento del “regime della politica economica”, realizzato in opposizione all’ “ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”. Era stato eretto il baluardo istituzionale grazie al quale politiche fiscali espansive, che avrebbero accresciuto l’occupazione e favorito la difesa dei salari reali, potevano essere rese impraticabili. Alla forza contrattuale acquisita dai lavoratori erano state contrapposte le ragioni della finanza pubblica, rese cogenti dal “divorzio”.

Qual era dunque, alla luce di queste considerazioni, l’obiettivo del “divorzio”, se questo non era comunque ritenuto in grado di operare efficacemente, nell’immediato, per il contrasto dell’inflazione?

Il bersaglio del “divorzio” erano le conquiste istituzionali, prima fra tutte la scala mobile, ereditate dagli anni ’70. Si trattava, da un lato, di erodere la forza contrattuale dei lavoratori e il consenso di cui essi ancora godevano nella società e negli organi rappresentativi; su questa base sarebbe poi stato possibile cancellare gradualmente le riforme realizzate nel decennio precedente. Dall’altro lato, si trattava di stabilire un contesto istituzionale all’interno del quale era sostanzialmente esclusa la possibilità di perseguire quelle politiche economiche espansive che in passato avevano accresciuto il ruolo e l’influenza dei lavoratori nella vita sociale e politica del paese.

Se queste erano le finalità del “divorzio”, non meno significativo fu il modo in cui esso venne realizzato. Si trattò, secondo le parole usate da Andreatta, del risultato di una “congiura aperta” tra il ministro del Tesoro e il governatore della Banca d’Italia, destinato a divenire, “prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso (…) abolire”. La decisione del “divorzio” non venne sottoposta al Comitato interministeriale per il Credito e il Risparmio, l’organismo che nel 1975 aveva deliberato l’impegno della banca centrale alla sottoscrizione dei titoli del debito pubblico. Tutto si risolse con uno scambio di lettere tra il ministro e il governatore. E’ sempre Andreatta a ricordare di non aver avuto alleati tra i colleghi di governo così come, più in generale, tra le forze politiche: il “divorzio non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti”. La conferma venne dal fatto che, quando fu chiesta dal governo una delega molto ampia per completare l’impianto istituzionale che era stato avviato con il “divorzio”, il Parlamento la rifiutò.

Si trattò dunque di una decisione politica che, indipendentemente dagli aspetti formali (i consulenti legali del Tesoro ritenevano che le disposizioni per la Banca d’Italia in merito alle modalità dei suoi interventi sul mercato fossero di esclusiva competenza del ministro), fu presa in contrasto con l’opinione prevalente nel Parlamento e nel governo. In seguito a quella decisione la Banca d’Italia venne a collocarsi in una sorta di extraterritorialità rispetto ai principi della rappresentanza democratica, godendo di un’autonomia che poteva prescindere dagli orientamenti del Parlamento e del governo e che le consentiva di operare, eventualmente, anche in contrasto con essi (soltanto pochi anni prima Guido Carli, all’epoca governatore della Banca d’Italia, aveva rifiutato questa prospettiva, non esitando a considerare come un “atto sedizioso” l’eventuale rifiuto da parte della banca centrale di sottoscrivere i titoli del debito pubblico).

Nei fatti è stata proprio la resistenza del Parlamento e dei governi ai vincoli imposti dal “divorzio” a limitarne, nel tempo, l’efficacia. La sensibilità delle istituzioni rappresentative alle ragioni del consenso elettorale ha fatto sì che il Tesoro continuasse a finanziarsi ampiamente sul mercato, anche a costo di un onere sempre più pesante per gli interessi sul debito pubblico (il cosiddetto servizio del debito). Essa ha anche fatto sì che le riforme realizzate negli anni ’70 e soprattutto i principi regolatori della vita civile ai quali esse si ispiravano siano rimasti per molti aspetti ancora in piedi, sia pure subendo una non trascurabile erosione. Per una modifica sostanziale di questo orientamento bisognerà attendere, come ha ricordato Mario Draghi, “la corsa affannosa a rientrare nei criteri per l’ammissione all’area dell’euro con il primo gruppo di paesi”.

Sono dunque due i caratteri essenziali del disegno che stava dietro al cambiamento del “regime della politica economica” avviato con il “divorzio”: la sottrazione al governo della gestione della politica fiscale e la sua soggezione ad una istituzione esterna al circuito della rappresentanza democratica. Soltanto la resistenza del Parlamento e del governo, i due organi dello Stato più sensibili alle esigenze del consenso democratico perché fondati direttamente su di esso, ha limitato l’efficacia del “divorzio”. Il prezzo che essi, e più in generale il paese, hanno pagato, è stato però l’accumularsi di un debito pubblico sempre più ingente, a causa delle condizioni via via più onerose del suo finanziamento. Un’eredità destinata a pesare negli anni in misura crescente.

I due caratteri essenziali del “divorzio” si ritrovano, anni dopo, nell’esperienza dell’Unione monetaria europea e nel ruolo che con essa è stato assegnato alla BCE. Questa volta l’esperimento si può considerare, per certi aspetti, più “riuscito”, giacché alcuni dei vincoli che esso prevede sono più rigidi di quelli imposti dal “divorzio”.

- I trattati che regolano l’Unione monetaria europea impegnano i paesi membri al perseguimento del pareggio del bilancio pubblico; sono ammesse, in linea di principio, soltanto deviazioni temporanee e contenute da questo obiettivo e, nel caso di disavanzi pubblici che superino i limiti consentiti, sono previste procedure di rientro che possono comportare anche delle sanzioni. E’, in altri termini, escluso esplicitamente il perseguimento di politiche fiscali espansive finanziate mediante il ricorso all’indebitamento, anche se di fatto c’è stata in passato una certa tolleranza nei confronti di politiche economiche nazionali che comportavano incrementi del disavanzo di alcuni paesi.

- In secondo luogo, lo statuto della BCE esclude la possibilità dell’acquisto diretto di titoli del debito pubblico. Quella che in base al “divorzio” del 1981 era soltanto una facoltà della banca centrale diventa così, nel caso della BCE, un divieto, avente dunque un carattere molto più vincolante. In altre parole, viene esclusa la possibilità che la BCE operi in maniera diretta per contenere l’onere degli interessi sul debito pubblico. Questo è il vincolo che ha operato realmente in maniera rigida. Le stesse politiche di rientro a cui sono tenuti i paesi in disavanzo sono, paradossalmente, rese più difficili proprio dalle condizioni più pesanti per quanto riguarda il servizio del debito alle quali essi sono soggetti in assenza di interventi da parte della BCE.

Nel caso dell’Unione monetaria europea la sottrazione ai governi nazionali della gestione della politica fiscale e la loro soggezione ad istituzioni autonome rispetto ai principi della rappresentanza democratica si realizzano in un contesto istituzionale diverso da quello del “divorzio”. Ai parlamenti e ai governi nazionali – le istituzioni più sensibili alle esigenze del consenso democratico – vengono contrapposte due istituzioni sovranazionali, la Commissione europea e la BCE. La prima, come è noto, è relativamente indipendente dal Parlamento europeo, anche se è comunque soggetta all’influenza dei governi nazionali, o per lo meno di quelli dei paesi più autorevoli. La BCE è, per statuto, autonoma da qualsiasi organismo di rappresentanza democratica: “in Europa è assente una forte istituzione politica capace di esercitare il controllo sull’operato della BCE” ha affermato in proposito Paul De Grauwe.

Ciò ha permesso, da un lato, ai parlamenti e ai governi nazionali di declinare, davanti al proprio elettorato, la responsabilità di politiche economiche severe, che hanno comportato in molti paesi riduzioni del livello del benessere collettivo e della sicurezza sociale. Dall’altro lato, tuttavia, questo contesto istituzionale ha alimentato la contraddizione tra le istanze sociali che trovano espressione nella rappresentanza democratica, le quali si manifestano soprattutto a livello nazionale, e la gestione effettiva della politica economica, che opera prevalentemente a livello sovranazionale. Una contraddizione tra le istanze sociali che trovano espressione nel parlamento e nel governo e i vincoli imposti dall’operato della banca centrale si era già manifestata in Italia in seguito al “divorzio”.

Essa aveva trovato tuttavia un punto di mediazione nella crescita del debito pubblico; come è già stato ricordato, il governo italiano aveva subito soltanto in parte i vincoli imposti dal nuovo modo di operare della Banca d’Italia, al prezzo delle condizioni relativamente più onerose alle quali era soggetto il finanziamento delle politiche statali. Nell’esperienza dell’Unione monetaria europea una mediazione analoga non è possibile. A causa della maggiore rigidità dei vincoli imposti dai trattati che regolano l’unione e della conseguente perdita di sovranità dei parlamenti e dei governi nazionali per quanto concerne l’orientamento della politica economica, la contraddizione si è risolta completamente a favore delle istanze rappresentate dalla Commissione europea e dalla BCE.

La conseguenza inevitabile è stata il decadimento della coesione sociale all’interno dei singoli stati e l’intensificarsi, tra gli stati, della contrapposizione degli interessi nazionali (è per questo, per esempio, che è molto difficile far accettare alle opinioni pubbliche dei paesi più floridi l’idea di trasferimenti di reddito verso i paesi più poveri). Ciò ha finito per rafforzare ulteriormente le uniche istituzioni in grado di esercitare veramente il potere di determinare l’orientamento della politica economica, e cioè quelle sovranazionali.

Indubbiamente, questo orientamento della politica economica è stato efficace nell’impedire aumenti dei livelli di attività e dell’occupazione che avrebbero potuto rafforzare i lavoratori. I tassi medi di crescita del prodotto interno lordo dei principali paesi europei non sono mai stati, nel secondo dopoguerra, così contenuti come quelli osservati negli ultimi decenni. Questo è avvenuto, per di più, in presenza di un contesto esterno che non era mai stato tanto favorevole: mai, nel secondo dopoguerra, i tassi medi di crescita – e quindi la disposizione ad importare – dei paesi più avanzati del Nord America e dell’Asia erano stati così elevati. Tutto ciò si è tradotto, come è noto, in una significativa redistribuzione del reddito a scapito del lavoro dipendente.

La crisi economica ha messo, a sua volta, in crisi questo assetto economico-istituzionale dell’Europa. Le politiche di austerità prescritte ai paesi più indebitati li stanno precipitando nella recessione, senza allo stesso tempo sottrarli al pesante condizionamento della speculazione finanziaria internazionale. Una gestione sostenibile del debito pubblico di questi paesi e una ripresa della crescita nel complesso dell’Unione monetaria europea richiederebbero l’intervento diretto della BCE nell’acquisto di titoli pubblici: da un lato per fronteggiare adeguatamente la speculazione finanziaria internazionale e ridurre l’onere dell’indebitamento, dall’altro per agevolare il ricorso a politiche di sostegno della domanda aggregata.

Questo comporterebbe però, come è evidente, lo smantellamento dell’assetto economico-istituzionale realizzato negli ultimi decenni e la rinuncia, in ultima analisi, alle condizioni che esso ha garantito per quanto riguarda la distribuzione del reddito. E’ questa la ragione sostanziale della resistenza a modifiche del ruolo della BCE che le consentano di operare come la Federal Reserve. Dobbiamo dunque ritenere che, pur di non rinunciare all’orientamento di politica economica fin qui seguito, le istituzioni e i principali paesi europei siano disposti ad accettare la prospettiva della fine dell’Unione monetaria europea e, soprattutto, di una fase recessiva che sarebbe per diversi paesi molto più pesante e generalizzata di quella già osservata?

Le istituzioni europee e la strategia alternativa per affrontare la crisi

In realtà, accanto al rifiuto di modificare il ruolo della BCE, si sta delineando da parte della istituzioni europee una strategia alternativa per affrontare la crisi (anche se, come vedremo, il suo esito non potrà che essere nefasto). Questa strategia sembra muoversi lungo due direttrici: la richiesta, rivolta soprattutto ai paesi più indebitati, di realizzare le cosiddette “riforme strutturali” e il progetto di ulteriori sottrazioni di sovranità agli stati nazionali.

Per comprendere il vero significato delle “riforme strutturali” da realizzare in Europa, è utile tornare per un momento indietro di qualche decennio, e in particolare alla fine della fase storica che ha visto l’affermarsi delle lotte dei lavoratori in Europa e negli Stati Uniti. La reazione a questa fase, come ha acutamente osservato Massimo Pivetti, è stata diversa nei paesi anglosassoni e nell’Europa continentale: “mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti l’attacco alle conquiste del lavoro dipendente e alle sue condizioni materiali di vita è avvenuto apertamente e frontalmente (…), nell’Europa continentale esso si è sviluppato in modo più graduale e indiretto, passando per il progressivo svuotamento delle sovranità nazionali”.

In altri termini, nei paesi dell’Europa continentale è mancato a livello nazionale il consenso politico che permettesse a) di perseguire politiche marcatamente deflazionistiche, in grado di indebolire in maniera sostanziale il movimento dei lavoratori, e b) di annullare le conquiste istituzionali ereditate dalla stagione delle grandi lotte operaie. Il primo di questi due obiettivi è stato allora perseguito, anche se in maniera più graduale rispetto a quanto è avvenuto nei paesi anglosassoni, attraverso i meccanismi istituzionali previsti dall’Unione monetaria europea, e cioè espropriando di fatto i parlamenti e i governi nazionali della gestione della politica fiscale.

Il secondo obiettivo era più difficile da perseguire a livello sovranazionale, giacché l’abolizione delle riforme realizzate negli anni ’70 a tutela dei lavoratori dipendenti richiedeva il coinvolgimento diretto dei parlamenti nazionali; alcune di queste riforme, soprattutto quelle orientate a garantire la sicurezza sociale (sistema sanitario nazionale, pensioni, regolamentazione delle possibilità di licenziamento), persistono ancora nella legislazione dei principali paesi membri dell’Unione monetaria.

Esse costituiscono il nucleo del cosiddetto “modello sociale europeo”. Proprio l’attacco alle conquiste istituzionali degli anni ’70 è l’oggetto delle “riforme strutturali” prescritte dalla Commissione europea e dalla BCE, come è evidente, per esempio, dalla lettera che quest’ultima ha inviato al governo italiano nell’estate 2011. Accanto a queste “riforme strutturali” le istituzioni dell’Unione monetaria europea richiedono un rafforzamento dei meccanismi di controllo sulla politica fiscale dei paesi membri: è questo il senso del cosiddetto “fiscal compact” e dei provvedimenti analoghi che vengono prospettati e in qualche caso sono stati già realizzati (non ultimo l’inserimento nelle Costituzioni nazionali del vincolo del pareggio di bilancio). Si tratta nient’altro che di ulteriori cessioni della sovranità nazionale, orientate a sottrarre in maniera sempre più stringente ai parlamenti e ai governi nazionali la gestione della politica fiscale, che risulterebbe così affidata ancor più di quanto non lo sia ora ad un sistema di trattati e di istituzioni non soltanto avulse, sostanzialmente, dall’ambito della rappresentanza democratica, ma addirittura dominanti su di essa; non è un caso che nessuna delle misure progettate preveda un vero rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo in sostituzione della cessione di sovranità dei parlamenti nazionali.

Il senso di tutto questo è piuttosto chiaro: “utilizzare” la crisi – negando l’intervento diretto della BCE a sostegno dei debiti sovrani – per raggiungere l’obiettivo fino ad ora mancato, e cioè lo smantellamento di ciò che ancora rimane delle riforme realizzate negli anni ’70 a tutela dei lavoratori e, più in generale, della sicurezza sociale. Allo stesso tempo creare un sistema istituzionale sovranazionale basato su vincoli molto più rigidi di quelli attuali, e quindi maggiormente in grado di resistere alle spinte, di natura essenzialmente democratica, provenienti dagli stati nazionali. Una volta che questi due obiettivi siano stati raggiunti, nulla esclude che la crisi possa essere infine affrontata utilizzando anche strumenti di carattere non convenzionale, compresa, almeno in linea di principio, una modifica del ruolo della BCE.

Si tratta di una strategia estremamente rischiosa, perché può lasciare morti e feriti sul campo. Oltretutto, comporta una fase nella quale sono messi per forza di cose in discussione anche i rapporti reciproci tra i paesi membri dell’Unione monetaria, generando situazioni di vantaggio o di svantaggio per l’uno o per l’altro di essi: è chiaro infatti che la recessione provocata dalle politiche di austerità prescritte ai paesi più indebitati ne compromette non soltanto il benessere sociale ma anche la capacità produttiva, a vantaggio dei paesi concorrenti. E’ questo il motivo dei contrasti, in parte dissimulati, che agitano i rapporti tra i paesi che soffrono di maggiori difficoltà finanziarie e quelli, come la Germania, che si sentono in una posizione relativamente più sicura e – non disdegnando l’idea di rafforzarla, anche a scapito dei paesi più deboli – spingono con più determinazione verso la realizzazione del progetto.

Soprattutto, però, è una strategia fondata su un’illusione, quella che creando un sistema istituzionale in grado di fissare in maniera rigida le condizioni che hanno determinato la distribuzione del reddito in Europa negli ultimi decenni si possano rimuovere le cause della crisi economica. Non bisogna infatti dimenticare che la crisi è esplosa proprio nel paese, gli Stati Uniti, per molti aspetti più vicino al modello che la strategia delle istituzioni europee si propone di realizzare.

E che la causa ultima della crisi negli Stati Uniti sta proprio negli effetti di quelle condizioni relative alla distribuzione del reddito che la leadership europea ha assunto come obiettivo principale della propria azione. E’ stata infatti la progressiva concentrazione del reddito in corrispondenza delle classi sociali più elevate che ha fatto sì che negli USA fosse l’indebitamento delle famiglie a medio e basso reddito – favorito da una politica monetaria di denaro a buon mercato – lo strumento principale mediante il quale è stata alimentata una domanda di consumi che i redditi da lavoro erano sempre meno in grado di sostenere.

Tutto questo, se ha dato luogo in un primo momento ad una fase di crescita economica sostenuta, ha condotto, come era prevedibile, alla crisi finanziaria che ha agito di fatto come detonatore della crisi economica. Uno scenario che potrebbe riproporsi in Europa a partire dalle crisi dei debiti sovrani.

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