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La Brexit non è sicura, il Regno Unito può rimanere nell’UE. Ma l’Italia?
mercoledì 13 luglio 2016, di
Sebbene il governo britannico abbia già escluso la possibilità di un secondo referendum sulla Brexit, Westminster discuterà comunque sulla questione il 5 settembre. La petizione per un nuovo referendum ha raccolto più di quattro milioni di persone, che rendono necessaria almeno una consultazione della camera.
La petizione chiede di introdurre una legge, evidentemente anche retroattiva, che cancelli il referendum del 23 giugno e che imponga che il referendum possa essere valido dolo con una partecipazione al voto inferiore al 75% e con una maggioranza di una delle due risposte di oltre il 60% dei voti.
La Brexit potrebbe anche non avvenire
Il Referendum del 23 giugno sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea sulla scheda mostrava il quesito: «Il Regno Unito dovrebbe restare un membro dell’Unione europea o dovrebbe lasciare l’Unione europea? ». Le due risposte erano o "Restare un membro dell’Unione europea" oppure "Lasciare l’Unione europea" e la Brexit ha vinto. Il Leave ha ottenuto il 51,9% dei voti e il Remain il 48,1%. Un dato importante è stato quello dell’affluenza al referendum: il 72,2%.
Questo Referendum, come dimostra la lettera inviata al dimissionario premier dimissionario David Cameron, scritta a quanto pare da oltre mille esperti di diritto, ha ricordato al primo ministro come il referendum sulla Brexit sia stato solamente consultivo e non vincolante per l’esecutivo del Regno Unito. Quindi le note trattative con l’Ue sulla Brexit potrebbero anche non iniziare.
In Italia, invece, un Referendum per l’uscita dall’UE non sarà mai possibile per il comma 2 dell’art.75 della Costituzione:
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
L’uscita dall’euro per l’Italia è quindi legata alla stessa uscita dall’Unione Europea con la procedura dell’articolo 50 del trattato Ue di Lisbona che è entrato in vigore nel 2009.
L’articolo 50 dice che ogni stato membro può decidere di ritirarsi dall’Unione europea conformemente alle sue norme costituzionali e deve informare il Consiglio europeo della sua intenzione e negoziare un accordo sul suo ritiro. Vanno stabilite le basi giuridiche per un futuro rapporto con l’Unione europea e l’accordo deve essere approvato da una maggioranza qualificata degli stati membri e deve avere il consenso del parlamento europeo.
I negoziatori hanno due anni a disposizione dalla data in cui viene chiesta l’applicazione dell’articolo 50 per concludere un accordo, ma questo termine può essere esteso.
Se in un momento successivo lo stato che ha lasciato l’Unione volesse rientrarvi deve rifare le procedure di ammissione. Nessuno stato ha mai invocato finora l’articolo 50 e il Regno Unito forse, ma non è sicuro, sarà il primo.
Cosa succede se l’Italia esce dall’UE e dall’Euro?
Si tratta di una procedura obiettivamente complessa ma per l’Italia, oltre a ragioni comuni con altri stati di ordine giuridico, lo sarebbe ancora di più poiché vi sono condizioni economiche rilevanti: l’uscita dall’Eurozona e dall’Ue avrebbe costi elevati in relazione al ritorno alla lira.
Il cambio 1 lira = 1 euro sarebbe solo iniziale in quanto bisognerà mettere in conto i processi di svalutazione: chi ha euro preferirà tenerseli e possibilmente investirli all’estero. Naturalmente se i titoli di stato italiani venissero riconvertiti in lire ci sarebbe un’ondata di vendite soprattutto da parte dei possessori stranieri ed è difficile stimare le perdite per aumenti degli spread. Ovviamente, se venissero lasciati in euro ci sarebbero rimborsi a scadenza più costosi.
Purtroppo i dati che abbiamo non sono tali da poter fare programmi di exit senza prima analizzare la nostra economia. Al riguardo si tenga conto che il nostro debito pubblico ad aprile è salito a 2.230,845 miliardi contro i 2.228,7 miliardi di marzo ed è quindi tendenzialmente in aumento. Invece, la quota detenuta dagli stranieri a marzo è stata di 776 miliardi di euro di cui 730 miliardi sono in titoli di stato sul totale di 2228 miliardi del debito pubblico di marzo. La percentuale è passata dal 33,6% di febbraio al 34,8%.
Questo è il quadro. I riflessi negativi su investimenti e complessivamente sul bilancio pubblico sarebbero pesanti perché ci sarebbe una forte svalutazione anche se potrebbero esserci vantaggi di breve periodo sulle esportazioni. Tuttavia, aumenterebbero i costi delle importazioni e in particolare delle materie prime per l’alta inflazione che lederebbe la competitività delle esportazioni. Insomma ci sarebbe una perdita di credibilità internazionale con difficoltà ad ottenere finanziamenti esteri per banche, privati e complessivamente per la nostra economia pubblica.
L’Italia deve rinunciare ad uscire dall’euro e dall’Ue?
No. Dobbiamo però rimodulare almeno la nostra economia pubblica mettendola al sicuro sia da un non impossibile isolamento istituzionale europeo e internazionale e sia da possibili condizioni avverse dei mercati che si potrebbero verificare facendo stime mirate e continue e promuovere nelle sedi internazionali nuove politiche di scambi commerciali in tutti i settori possibili. Ed è proprio da qui che conviene ripartire anche restando nell’euro.
È noto che i parametri del trattato di Maastricht non funzionano e che non avremo mai un equilibrio economico che abbassi davvero la disoccupazione promuovendo investimenti pubblici e privati.