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L’euro? Progetto politico, nessuna logica economica. “Complicato” uscirne - Feldstein
venerdì 28 aprile 2017, di
L’euro non ha certamente favorito l’economia italiana. Uscirne ora, tuttavia, sarebbe per l’Italia assai “complicato”. Di recente si è espresso così uno dei principali critici dell’euro, l’economista americano Martin Feldstein, intervenuto nel dibattito “euro sì, euro no” lanciato dall’economista Luigi Zingales sul Sole 24 Ore.
Le perplessità di Feldstein sulle ragioni economiche dell’euro persistono dagli anni ‘90, quando a ridosso della convergenza ebbe a dire che nulla motivava, dal punto di vista economico, il passaggio dalle singole monete nazionali all’euro nel contesto di una fantomatica area valutaria (in definitiva non ottimale) che gli artefici del Trattato di Maastricht si vantavano di aver creato a tavolino.
Oggi, a vent’anni di distanza, Feldstein non ha cambiato parere: l’euro resta costruzione viziata e, in definitiva, forzata alla nascita da specifiche “volontà politiche”. Se l’Italia si fosse tenuta alla larga da un simile progetto probabilmente oggi starebbe economicamente meglio. Tuttavia, uscirne non è semplice non già per cavilli di natura giuridica, quanto per quello che significherebbe una ridenominazione dei debiti in nuova valuta.
Euro? Un progetto politico. Nessuna logica economica dietro la sua nascita
In questi giorni convulsi resi peculiari dal clima delle elezioni francesi assistiamo a notevoli capriole pindariche da parte degli economisti storicamente euro-critici. La scorsa settimana, 25 Nobel per l’economia hanno siglato una lettera in cui si asseriva che sebbene sia stato sciocco creare l’euro uscirne lo sarebbe di più. Un cul de sac in poche parole.
Tutti riconoscono apertamente - Sen, Stiglitz, Phelps e compagnia bella - che nulla motivava l’istituzione dell’euro ma visto che alla fine si è fatto tanto vale restarci dentro, perché uscirne sarebbe mossa assai azzardata. Un’altra volta ancora l’euro - e l’Integrazione europea - appaiono, perché vogliono (le élites) che appaia così, come costruzione del tutto avulsa dalla storia, immutabile.
Nel 1997, Martin Feldstein, non di certo un apologeta dell’euro, rammentava ai firmatari di Maastricht che non una sola ragione economica motivava l’essenza del progetto che i Paesi UE si apprestavano a varare. L’area comunitaria non presenta(va) i connotati dell’area valutaria ottimale. Ad una perfetta mobilità dei capitali garantita dagli accordi sottoscritti negli anni ‘80 (Atto Unico e Libro Bianco) non seguiva per definizione la perfetta mobilità del fattore lavoro - l’eterogeneità dei sistemi produttivi nonché la lingua rappresenta(va)no scogli insormontabili. Per questa ragione Feldstein ammoniva circa il fatto che
“condizioni economiche avverse dovute all’euro sulla disoccupazione e l’inflazione avrebbero sepolto i guadagni derivanti dalle facilitazioni commerciali e dal flusso di capitali tra Paesi membri dell’unione monetaria.”
Dato che la letteratura da anni aveva appurato simili evenienze in contesti di cambio rigido non aggiustabile, non poteva che esserci una ragione politica dietro l’istituzione dell’euro. Infatti Feldstein, come tanti prima e dopo di lui, all’epoca riteneva (e lo ribadisce oggi) che dietro la forzatura di una moneta unica in termini economici vi fosse la necessità di porre il “carro davanti ai buoi” (per usare una nota espressione), ovvero creare la condizione affinché “il popolo europeo” accettasse la federazione degli Stati europei tramite un vincolo e non già per scelta volontaria.
Uscire dall’euro? Processo “complesso”. L’Italia non sarebbe dovuta entrare
Feldstein è del parere che se l’Italia non avesse adottato l’euro oggi, con ogni probabilità oggi “se la passerebbe meglio”. Le ragioni che motivano una tale affermazione sono semplici: la gestione del tasso di cambio pone un Paese (nel caso di specie l’Italia) nella condizione per promuovere manovre anti-cicliche in caso di crisi dal lato della domanda.
Un aspetto che non venne mai preso seriamente in considerazione in sede negoziale se non dai Paesi che attraverso clausole di opting out si tennero fuori dal progetto dell’euro (Gran Bretagna e Danimarca).
Tuttavia, il parere di Feldstein non differisce, nella sostanza, da quello dei 25 Nobel evidenziato nella lettera inviata a Le Monde la scorsa settimana: uscire dall’euro è talmente complesso che in definitiva è auspicabile rimanervi dentro. Un po’ come essere intrappolati in una baita di montagna mentre fuori la tempesta minaccia di spazzare via la struttura. In una simile condizione pur di salvare la pelle l’uomo cederebbe alla tentazione di fuggire. L’alternativa? Morire schiacciato dal crollo del tetto.
Ora, la metafora è pertinente se si guarda all’ipotesi di un’uscita di un Paese dall’euro (la baita): gli economisti finora intervenuti nel dibattito, Feldstein compreso, dicono che sarebbe auspicabile rimanervi dentro, così da scongiurare il rischio di un congelamento (svalutazione della nuova valuta) connesso alla fuga. Tuttavia, per l’uomo che decide di rimanere tra le quattro mura delle baita (un Paese che non sceglie di uscire dall’euro) si palesa comunque il rischio che il tetto crolli (crollo della domanda connesso a moderazione salariale come meccanismo di aggiustamento della competitività).
In definitiva, l’euro è una camicia di forza. Credere nelle sue potenzialità benefiche è perciò quindi l’atto di fiducia di uno squilibrato? Su questo aspetto si pronuncerà la Storia.