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Aldo Barba: quanto è importante l’apertura al Keynesismo?

venerdì 1 febbraio 2013, di Erika Di Dio

Money.it intervista Aldo Barba, Ricercatore in Economia Politica presso il Dipartimento di Economia dell’Università "Federico II" Napoli.

Tempo fa, abbiamo pubblicato il suo contributo presente nell’ebook "Oltre l’austerità", dal titolo, "Le illusioni del Keynesismo antistatalista".

Oggi, vi proponiamo l’intervista che abbiamo realizzato con il Professor Barba sui temi da lui discussi nel testo sopra citato.

1) Come emerge dal suo contributo pubblicato nell’ebook “Oltre l’austerità”, ultimamente è rinato un certo interesse per il Keynesismo. Ci può spiegare in parole povere cosa si intende per Keynesismo e in che senso lo si può oggi considerare rinato?

R. È bene chiarire che tracce di questo rinato interesse per il keynesismo si riscontrano solo negli Stati Uniti, non in Europa. E a ben vedere, anche negli Stati Uniti, non si può parlare di una vera e propria ‘rinascita’ per due motivi. Negli USA la domanda aggregata è stata sostenuta dalle spese militari negli anni di Reagan, dal boom borsistico negli anni di Clinton e dal debito delle famiglie nell’ultimo decennio. Si tratta di modalità di sostegno ai livelli di attività molto diverse tra loro, ma in ogni caso rese necessarie dall’accresciuta concentrazione dei redditi che ha agito invece come fattore di contenimento della domanda e quindi della crescita. Se per keynesismo si intende considerare il sostegno alla domanda aggregata come il problema politico centrale, questo keynesismo negli Stati Uniti non è rinato perché non era mai morto. Se invece, e vengo così al secondo motivo per cui non parlerei di ‘rinascita’, per keynesismo si intende sostenere la domanda aggregata attraverso un sistema fiscale progressivo e lo sviluppo di importanti programmi di spesa pubblica sociale (istruzione, sanità, pensioni), ebbene nell’ultimo trentennio ci si è mossi piuttosto in direzione opposta, ed è ormai evidente che la crisi non è stata in grado di mutare questa tendenza. Detto questo, è innegabile che in importanti circoli accademici e politici (si pensi ad esempio al FMI) oggi si guarda con favore al moltiplicatore keynesiano della spesa pubblica, considerato non più di cinque anni fa un ferro vecchio usato solo dagli economisti non aggiornati sugli sviluppi più recenti della disciplina. È un’apertura importante, da non sottovalutare. Ma che resta confinata tutta dentro la logica di un sostegno alla domanda di durata temporanea e natura reversibile, senza nessuna implicazione relativa allo stato sociale e alla necessità di rilanciarlo.

2) Questo è un periodo di grande turbolenza e preoccupazione negli Stati Uniti, principalmente per la questione del tetto del debito che potrà rappresentare un vero problema per il paese, secondo gli economisti, entro fine Febbraio – inizi Marzo. Recentemente l’economista Roubini ha sostenuto che il paese non ha bisogno di preoccuparsi più di tanto, basandosi sull’importanza del dollaro e della sua posizione da cosiddetto “porto sicuro”. Lei come vede la situazione attuale del paese e come pensa si risolverà la questione?

R. Nella domanda che pone emergono due questioni che, sebbene strettamente collegate, è forse utile distinguere. Da un lato, la questione del tetto al debito pubblico e il dibattito sul così detto ‘baratro fiscale’. Dall’altro, la questione del dollaro come valuta chiave del sistema dei pagamenti internazionali e la capacità peculiare agli Stati Uniti di operare senza il vincolo della bilancia dei pagamenti. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, a me sembra indubbio che anche un paese con un primato tecnologico e militare così marcato come quello degli Stati Uniti debba preoccuparsi di permanenti e consistenti disavanzi commerciali. E questo non tanto perché questi disavanzi non sono sostenibili (potrebbero esserlo per lungo tempo se conviene ai paesi che registrano il corrispondente avanzo), ma perché, nella misura in cui questi disavanzi sono la conseguenza di un avanzato processo di de-industrializzazione, verrebbero prima o poi meno anche le condizioni che garantiscono il primato tecnologico e militare. Il punto però è che le politiche che dovrebbero preservare questo primato hanno ben poco a che vedere con la questione del tetto al debito pubblico. Non è attraverso una stretta fiscale che gli Stati Uniti eviteranno il rischio di trasformarsi in un paese di bottegai. Se gli Stati Uniti si sono auto-imposti una stretta fiscale (o hanno finto di farlo) i motivi sono evidentemente altri, e vanno cercati in una sorta di tiro alla fune tra l’obiettivo di espandere la spesa militare e l’obiettivo di estendere l’assistenza sanitaria pubblica e abolire parte dei tagli alle imposte sui redditi dei cittadini più abbienti attuati dalle amministrazioni Bush negli scorsi anni. Il tetto sul debito fisserebbe la lunghezza della fune, di modo che, data per scontata la crescita della spesa militare, i repubblicani mirerebbero al taglio della spesa non militare, ed i democratici all’incremento delle imposte sui ricchi. Gli esiti di questo scontro sono ancora incerti, ma molto probabilmente la fune sarà elastica, e quasi certamente una svolta in senso progressivo del sistema fiscale non ci sarà, per non parlare di un’estensione universalistica dell’assistenza sanitaria. L’incremento della spesa sociale è infatti un obiettivo avanzato che difficilmente i democratici potranno conseguire, visto che non riescono a centrare in pieno nemmeno quello minimale dell’incremento delle tasse sui ricchi. Quanto il problema del tetto al debito sia strumentale alla questione dei livelli della spesa pubblica, e quanto in fin dei conti sia arretrato il dibattito in corso, è ben evidenziato dalla prima posizione negoziale dei repubblicani, la ‘Boehner Rule’, ovvero la proposta di accettare un incremento al tetto sul debito solo se compensato da una riduzione di pari ammontare della spesa. Detto in altro modo, i repubblicani considerano del tutto accettabile un incremento dell’indebitamento pubblico, purché causato da un taglio di imposte doppio rispetto al taglio della spesa. Il problema, evidentemente, non è impedire la crescita del debito, ma arginare il dilagare della consapevolezza maturata con la crisi che di un maggiore intervento dello stato in economia non si può fare a meno. La questione centrale è questa.

3) Nel suo contributo, Lei sostiene che “Le esperienze di Europa e Stati Uniti dell’ultimo ventennio possono essere viste come due diversi, ma entrambi fallimentari, tentativi di contenere il ricorso alla spesa pubblica in un contesto di salari calanti”. Qual è stato quindi secondo Lei l’errore commesso da entrambi i Paesi?

R. Partiamo da un fatto. In tutti i capitalismi avanzati, nel trentennio immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale, la quota salari è cresciuta, lo stato sociale ha ampliato il suo raggio d’azione, la progressività dei sistemi di prelievo si è accentuata. La crescita è stata molto più elevata rispetto all’ultimo trentennio, che si è caratterizzato invece per salari calanti, spesa pubblica in contenimento e un fisco che ha assunto addirittura caratteri di regressività. Questo è il fatto. Diverse sono le letture che se ne danno. Prevale l’idea che con crescita elevata era possibile permettersi salari alti, spesa sociale e redistribuzione. Con crescita bassa, finito il tempo delle vacche grasse, il ruolo dei sindacati e dello stato deve aggiustarsi di conseguenza. Ma così si ragiona come se salari che crescono con la produttività, pensioni dignitose e un sistema fiscale informato al criterio di progressività fossero beni di lusso, che la crescita elevata permetterebbe di ‘acquistare’. Non è così. Non sono beni di lusso. Sono i principali determinanti della crescita. Rinunziarvi ha quindi comportato la rinunzia alla crescita. Da questo, l’apparente paradosso di spesa pubblica e tasse che crescono poco in valore assoluto (o non crescono affatto come in Italia negli ultimi anni), ma che aumentano in rapporto al PIL. Vi sono però delle differenze nel modo in cui questo circolo vizioso della stagnazione si è imposto negli Stati Uniti ed in Europa. Come ho in precedenza rilevato, nel primo caso, l’obiettivo del sostegno alla domanda aggregata e ai livelli occupazionali non è mai scomparso dall’orizzonte delle forze politiche, non importa se di destra o di sinistra. Nel secondo caso si. Ne è derivata una differenza importante, che sarebbe fuorviante ricondurre al fatto che gli Stati Uniti non sono vincolati dalla bilancia dei pagamenti. Nel trentennio della restaurazione, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di garantire per altre vie il sostegno alla domanda aggregata. Queste vie alternative hanno prodotto conseguenze inaccettabili, questo oggi è ammesso da molti. Ma ancora più inaccettabili sono le conseguenze che la restaurazione ha avuto in Europa, dove si è finito per credere che una distribuzione del reddito più sperequata e sistemi di prelievo tendenti alla regressività non costituissero un ostacolo alla crescita, ma la favorissero invece, incentivando il risparmio e quindi l’investimento. Ritorniamo così al nocciolo delle idee keynesiane. Un atto di risparmio (che è nulla più che astensione dal consumo) non genera necessariamente un investimento. Ciò che si decide di non consumare può semplicemente cessare di essere prodotto. D’altro canto, un atto di investimento non necessita di un risparmio preesistente che lo finanzi. L’astensione dal consumo è una condizione necessaria all’investimento solo se tutti sono occupati. Se vi sono disoccupati, non vi è alcun bisogno di distogliere lavoratori dalla produzione di beni di consumo per produrre beni di investimento. È possibile far crescere l’investimento senza ridurre il consumo. Anzi, dal momento che i beni di investimento servono a produrre beni di consumo, solo se crescono i consumi possono crescere gli investimenti. È questo il crinale che separa il circolo vizioso dell’austerità dal circolo virtuoso della crescita. Ed è il pieno impiego il vero vincolo che bisogna tenere in considerazione quando si ragiona di ostacoli alla crescita. Se guardiamo ai dati della disoccupazione in Europa, è chiaro purtroppo che oggi questo vincolo non morde.

4) Infine, Le chiediamo: cosa pensa dell’eventualità di un’uscita dalla moneta unica europea? Ciò non metterebbe in discussione l’intero mercato unico europeo? E cosa succederebbe a questioni come il debito pubblico, l’inflazione, la disoccupazione?

R. Mi sembra la questione vada posta in un modo diverso. Non credo che l’Italia possa decidere di uscire dalla moneta unica in isolamento, con un’azione unilaterale. Manca una classe dirigente in grado di avviare e gestire un processo di questa rilevanza, e prima ancora il blocco sociale che a questa classe dirigente dovrebbe offrire la necessaria legittimazione. Osservare l’Italia è interessante per un altro motivo. Le immaturità del nostro paese lo rendono un termometro molto sensibile alle tensioni create dall’assetto di Maastricht. I punti di frattura del progetto europeo vengono quindi in maggior luce rispetto ad altri paesi che, come la Francia, riescono a conservare un tempo maggiore di latenza, anche se potrebbero assumere quel ruolo destabilizzante che l’Italia non può assumere. Questi punti di frattura vanno in primo luogo individuati nella crescente incompatibilità tra l’assetto di Maastricht e la conservazione della stabilità sociale. Da questa prospettiva, gli sviluppi futuri appaiono imprevedibili per almeno due ragioni. In primo luogo, se è vero che l’ottusità europea procede incurante delle tensioni che alimenta, è vero pure che in questa follia c’è del metodo, visto che non ha impedito al progetto di fare i necessari passi indietro nei momenti in cui ci si è avvicinati al punto di rottura. In secondo luogo, in economie che, come quelle dell’Europa centrale, hanno raggiunto elevati livelli di benessere, il limite oltre il quale la stabilità sociale risulta compromessa non può essere misurato in calorie, dipendendo in buona misura dal clima politico e culturale. Difficile negare che su questo terreno la restaurazione dell’ultimo trentennio ha mietuto il successo più pieno. E la crisi, la sua capacità di terrorizzare gli strati più deboli della società, ha accresciuto questo successo. Vi è certo molto da riflettere sulle scelte da compiere nel caso in cui l’unione monetaria non regga, ma a me sembra che queste scelte potrebbero collocarsi tanto in un contesto di ‘riconquistata’ autonomia, quanto, al contrario, in un contesto di accentuazione dei vincoli esterni e quindi di ulteriore perdita di autonomia. Il risultato dipende molto dal grado di coesione sociale e dalla qualità della classe dirigente. Indubbiamente, la rottura dell’unione monetaria avrebbe nell’immediato ulteriori effetti negativi sulla coesione sociale. E bisogna francamente ammettere che immaginarsi la nostra attuale classe dirigente investita del potere incondizionato dell’emergenza fa tremare le vene ai polsi.

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