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Le illusioni del Keynesismo antistatalista
domenica 16 settembre 2012, di
Vogliamo proporre ai nostri lettori un interessante contributo scritto dal Prof. Aldo Barba, ricercatore presso l’Università Federico II di Napoli, pubblicato nell’ebook uscito con la rivista Micromega online dal titolo Oltre l’austerità.
Nel 1948, nel suo noto manuale di macroeconomia, Samuelson rilevava come ‘oggi pochi economisti guardano alla politica monetaria della FED come ad una panacea in grado di stabilizzare il ciclo economico’, per sottolineare come la sola politica fiscale contasse. Nel 1995, nella 15a edizione dello stesso libro, egli concludeva invece che ‘la politica fiscale non è più un importante strumento di stabilizzazione negli Stati Uniti. Nel futuro prossimo le politiche di stabilizzazione saranno effettuate dalla politica monetaria della FED’. Le cose sono andate in altro modo. Negli USA la politica fiscale è oggi al centro dell’attenzione, sostenuta dall’impossibilità di rilanciare la crescita con mezzi puramente creditizi.
L’intervento di Stanley Fischer al forum fiscale del FMI dello scorso aprile è un termometro del rinnovato favore di cui oggi gode il deficit spending. In sintesi, egli afferma che la politica fiscale a fini anticongiunturali funziona, come molta evidenza empirica negli ultimi anni si è incaricata di mostrare, pur non essendovi un singolo moltiplicatore della spesa e delle tasse, dipendendo dai dettagli della manovra; non è chiaro se il moltiplicatore delle imposte è più grande del moltiplicatore della spesa oppure il contrario, sebbene l’economista liberista Feldstein abbia sostenuto che ‘mentre una buona politica impositiva può contribuire a mettere fine alla recessione, l’intervento risolutivo deve essere effettuato incrementando la spesa pubblica’, e lo stesso Fischer concluda che ‘dato il bisogno di misure fiscali imponenti, è molto verosimile che ogni intervento di sostanziale entità debba essere effettuato includendo manovre tanto sulle tasse che sulla spesa’.
Le contrazioni fiscali attuate da piccoli paesi in una unione monetaria non sono da considerarsi espansionarie in quanto, da un riesame delle note stabilizzazioni fiscali anti-keynesiane di Danimarca ed Irlanda nel corso degli anni ottanta, emerge che la riduzione del tasso di interesse, e soprattutto il deprezzamento del cambio, eventi in larga misura indipendenti dalla politica fiscale restrittiva, hanno giocato un ruolo centrale nel generare espansione della produzione. D’altra parte, Fischer ritiene che deficit fiscali elevati e sostenuti nel tempo, tali da incrementare il rapporto debito pubblico/PIL, sono in grado di esercitare effetti negativi sulla crescita, ostacolando l’utilizzo della politica fiscale a fini anticongiunturali.
L’orientamento di Fischer, in buona misura coincidente con quello del FMI, è espressione di quello dell’amministrazione americana. Cosa essa intenda per ‘responsabilità fiscale’ ben si evince dal Rapporto Economico del Presidente del 2012: sebbene si affermi che nel lungo periodo disavanzi persistenti riducono il risparmio, accrescono l’interesse e ostacolano l’investimento, ‘nel breve periodo, riduzioni severe del disavanzo frenano la domanda aggregata e minacciano di distruggere la crescita economica’; la riduzione del disavanzo è conseguentemente individuata come un obiettivo di lungo periodo, da conseguirsi anche grazie al contenimento delle ricadute sul bilancio pubblico di un costosissimo sistema sanitario in prevalenza privato; il debito pubblico emesso per finanziare investimenti in infrastrutture, tecnologia e educazione è invece ritenuto in grado di esercitare un effetto stabilizzante sulle finanze pubbliche. Deficit spending, insomma, ma finanze pubbliche sostenibili, ‘iniziative orientate a sostenere l’investimento’ e tagli di spesa inefficiente, breve periodo in disavanzo e lungo periodo in avanzo. Cerchiamo di chiarire le forme ambigue e contraddittorie di questo rinato interesse per il Keynesismo.
Centrale è l’affermazione dell’efficacia incondizionata della manovra di bilancio a fini anticongiunturali. Ma a ben vedere, negli USA, questa affermazione non è mai stata posta seriamente in discussione, essendo la politica fiscale espansiva sempre stata considerata un peccato veniale, vale a dire un gesto di cui non andar fieri, ma spesso necessario, sicuramente perdonabile purché non tolga la grazia del libero mercato. Detto più esplicitamente, il problema politico negli Stati Uniti non è mai stato l’inibizione del sostegno alla domanda aggregata attraverso il bilancio pubblico, quanto piuttosto il garantire questo sostegno con interventi reversibili che non comportino un allargamento del ruolo dello stato in economia.
La funzione delle spese militari, ad esempio, è anche questa, e lo stesso Reagan, celebrato campione di liberismo e privatizzazioni, può essere senza dubbio annoverato tra i più accaniti keynesiani anticongiunturali. Più che il reaganismo, il vero caso anti-keynesiano è stato, in apparenza, il boom clintoniano degli anni novanta.
La forza della tesi delle stabilizzazioni espansionistiche non può derivare infatti dall’esperienza di un paese che, come la Danimarca, ha un prodotto interno lordo pari a circa due terzi di quello della Lombardia. Essa deriva piuttosto da dieci anni di sviluppo sostenuto dell’economia capitalistica avanzata più grande al mondo senza che il settore pubblico fosse chiamato a sostenerne la domanda aggregata – svolgendo anzi un ruolo frenante – nonostante l’evoluzione della distribuzione del reddito lasciasse pensare che di questo pubblico sostegno vi fosse crescente bisogno.
Ho detto in apparenza perché anche i ruggenti anni novanta sono stati anni keynesiani, ma di un keynesismo inedito, gestito privatisticamente, tutto centrato sul settore finanziario e sul debito delle famiglie, rivelatosi insostenibile nel più lungo periodo, come la crisi finanziaria si è incaricata di mostrare. Affermare oggi negli Stati Uniti che la politica fiscale a fini anticongiunturali funziona significa soprattutto affermare la necessità di tornare alla gestione pubblica della domanda aggregata, considerando non ripetibile un esperimento che ha finito per creare più problemi di quanti ne abbia risolti.
Da questo punto di vista, il riferimento ai ‘dettagli della manovra’ non va inteso nel senso di attenuare il caso keynesiano. Che gli effetti sulla domanda aggregata di diverse manovre di spesa e d’imposta siano molto differenziati a seconda della composizione della manovra stessa è infatti un punto profondamente keynesiano. Sarebbe ad esempio difficile pensare che ulteriori riduzioni delle già bassissime imposte sui redditi da capitale possano avere un qualche effetto espansionistico sulla produzione: nella misura in cui ad essere toccato dalla riduzione delle imposte non è il reddito disponibile delle famiglie meno abbienti, e quindi più propense alla spesa, l’effetto complessivo sui livelli di attività risulta affievolito, se non del tutto assente.
Ed è proprio l’amministrazione statunitense a rilevare che ‘i tagli d’imposta avviati nello scorso decennio, incluso quelli sugli individui più ricchi, hanno ridotto le entrate fiscali a livelli storicamente bassi’. Sottolineare come ‘i profondi tagli dell’imposta sul reddito e sul patrimonio, inizialmente attuati nel 2001 e 2003, hanno ridotto le entrate e aumentato le spese per interessi di 3 trilioni di dollari tra il 2001 e il 2011’ significa considerare non ripetibile anche l’esperimento del keynesismo per super ricchi dell’ultimo decennio.
Diverso, ed in parziale contraddizione con quanto rilevato, è il discorso relativo all’idea che il moltiplicatore delle imposte sia più grande di quello della spesa. Dalla teoria keynesiana, anche qualora si considerino i soli effetti della manovra di bilancio sulla domanda aggregata, deriva un favore nei confronti delle manovre di spesa. Una riduzione di pari ammontare di spesa pubblica e imposte è recessiva, non espansionistica.
Qui si tocca il punto dolente del nascente consenso keynesiano. Il taglio delle imposte ha sempre offerto un momento di contatto tra keynesismo ed anti-keynesismo, consentendo alle politiche di domanda di andare a braccetto con l’ideologia offertista. Il contatto è effimero, però, perché una cosa è il taglio d’imposta attuato finanziando a debito la spesa (o monetizzandola), altra cosa è il taglio d’imposta come momento disciplinare e precursore del taglio della spesa. E’ il ruolo della spesa pubblica –vale a dire il ruolo dello stato – il vero terreno di contrasto, ed è proprio su questo terreno che le contraddizioni si sviluppano.
– Da un lato, il moltiplicatore delle imposte sarebbe più grande di quello della spesa, la qual cosa consente di concludere che un ridimensionamento del settore pubblico a saldi di bilancio invariati stimola la produzione.
– Dall’altro, le contrazioni fiscali sono invece considerate recessive. In effetti, ciò che oggi resta della teoria delle stabilizzazioni espansionistiche è l’idea che una manovra di bilancio restrittiva possa non comprimere il prodotto e l’occupazione se, contestualmente, entrano in azione altre forme di sostegno della domanda aggregata in grado di contrastarne l’influenza negativa.
Questa affermazione –in buona sostanza nulla più di una riproposizione dei precetti della finanza funzionale – è qualcosa di molto diverso dall’idea che sia la stessa stabilizzazione fiscale ad alimentare la domanda aggregata. In origine era la manovra restrittiva, vuoi per l’aspettativa di minori tasse future, vuoi per i più bassi tassi di interesse generati da una finanza pubblica ‘sana’, a stimolare consumi e investimenti.
Oggi la riduzione del tasso di interesse è considerato un evento scollegato dalla riduzione del disavanzo: per una grande economia che definisce con ampi margini di autonomia la politica dell’interesse, la teoria delle stabilizzazioni espansionistiche non ha alcuna rilevanza; per una piccola economia che non ha alcun controllo dei tassi di interesse, nemmeno. In quali casi sarebbe allora rilevante? Fischer, diversamente dal FMI, sembra ritenere che questa rilevanza vi sia per paesi a rischio di fallimento: grazie all’austerità essi potrebbero ridurre lo spread ristabilendo così la necessaria connessione tra politica fiscale restrittiva e bassi tassi di interesse. Ma come mantener viva questa linea argomentativa alla luce di un caso come quello greco, che pure egli sembra implicitamente evocare, in cui se vi è stato un effetto della stabilizzazione fiscale sul rischio di fallimento, esso ha operato nel senso di accrescerlo invece che di ridurlo?
Dove ambiguità sembrano non esservi è nell’idea che un rapporto debito pubblico/PIL crescente sia un male, in grado di inibire anche un utilizzo efficace della politica fiscale anticongiunturale. Ora, che sia necessario assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche, da intendersi come capacità di controllare la crescita del rapporto tra debito pubblico e PIL al fine di evitare che il debito divenga strumento di massicce redistribuzioni tra coloro che sono oggi chiamati a pagare le imposte per onorarne il servizio e coloro i quali oggi beneficiano degli interessi corrisposti dallo stato, è riconosciuto soprattutto da chi vede nella manovra di bilancio uno strumento indispensabile per generare un livello di domanda che consenta un pieno impiego delle risorse.
Ed è proprio la nozione keynesiana di equilibrio di sottoccupazione ed il riconoscimento della rilevanza della distribuzione nel determinare la domanda effettiva che consentono di individuare un limite all’accumulo del debito pubblico indipendente dall’irrealistica ipotesi di pieno impiego delle risorse necessaria a collegare la nozione di eccessivo indebitamento allo spiazzamento degli investimenti. Il punto, però, è che disavanzi primari permanenti non accrescono il rapporto tra debito pubblico e prodotto se le autorità di politica economica riescono a mantenere il tasso di interesse al di sotto del tasso di crescita. L’identificazione tra l’obiettivo di ridurre il rapporto debito/PIL e gli avanzi primari riposa allora sull’idea che i paesi a capitalismo maturo siano entrati in una fase in cui il tasso di interesse debba necessariamente collocarsi ad un livello superiore al tasso di crescita. Che nel corso degli ultimi trent’anni il tasso di interesse abbia superato il tasso di crescita è un fatto.
Ma è un fatto pure che nei trent’anni successivi al secondo conflitto mondiale sia accaduto l’inverso, cosa che, in una certa misura, è avvenuto negli Stati Uniti anche nel corso dell’ultimo trentennio. In effetti, se l’inversione del segno del differenziale fosse effettivamente un dato irreversibile, senza avanzi primari, ogni forma di indebitamento, privato e pubblico, diverrebbe insostenibile. In una circostanza del genere, i creditori sono destinati a trovare soddisfazione non grazie ad un allargamento del prodotto sociale, ma in un’espansione della quota di esso asservita ai diritti del prestatore, soluzione questa che prima o poi non può che condurre il debitore all’insolvenza.
La politica del debito: il caso USA
La vicenda degli USA negli scorsi decenni è, da questo punto di vista, particolarmente indicativa. Negli Stati Uniti la politica del debito non ha teso al pareggio, ed infatti i tassi crescita si sono mantenuti ad un livello più elevato che in Europa.
Questa politica di sostegno alla domanda interna, e quindi alla crescita, necessaria in misura crescente dati i mutamenti nella distribuzione del reddito, non è stata attuata però ricorrendo all’indebitamento pubblico, ma all’indebitamento privato, generando così instabilità finanziaria visto anche il più elevato onere del debito che si associa a questo circuito di sostegno della domanda effettiva. Ciò che l’esperienza statunitense sembra allora suggerire è che sia possibile sostenere una crescita più elevata, sebbene l’opzione di offrire privatisticamente questo sostegno si sia rivelata insostenibile nel lungo periodo.
Le esperienze di Europa e Stati Uniti dell’ultimo ventennio possono allora esser viste come due diversi, ma entrambi fallimentari, tentativi di contenere il ricorso alla spesa pubblica in un contesto di salari calanti.
– Gli Stati Uniti hanno contenuto la spesa pubblica espandendo i disavanzi privati, sacrificando così la stabilità finanziaria alla crescita;
– l’Europa ha, invece, contenuto la spesa pubblica senza attivare alcuna forma alternativa di sostegno alla domanda interna, sacrificando la crescita alla stabilità finanziaria, e finendo poi per perdere su entrambi i fronti a causa della crisi.
La reazione dell’Unione a questa doppia sconfitta è stata, da un lato, coltivare la speranza che sia possibile trainare con le esportazioni la crescita di un’area che genera un quarto del PIL mondiale; dall’altro, il credere contro ogni evidenza che riducendo tasse e spesa pubblica si possa rilanciare consumi e investimenti. Privatizzazioni, contenimento della spesa pubblica, detassazione, sono un’idea anglosassone prima ancora che europea. Ma, come abbiamo rilevato, vi sono profonde differenze nel modo in cui questa concezione si è affermata negli Stati Uniti rispetto all’Europa. Mentre negli Stati Uniti il ridimensionamento del ruolo dello stato è stato considerato nulla più che un naturale esito del conclusosi conflitto sociale, in Europa la questione è diversa.
Negli Stati Uniti la soluzione della questione distributiva era in larga misura indipendente da quella del ruolo dello stato, ed entrambe sono state disconnesse dalla questione della crescita (sebbene con soluzioni non sostenibili nel più lungo periodo). In Europa questi piani si intersecano. Lo stato reggeva la distribuzione e la crescita. Per il capitale, indebolirlo è stato indispensabile per vincere sul primo piano, ma ha comportato il perdere sul secondo. Il superamento del ‘problema stato’ ha finito così per coincidere con il superamento delle politiche di gestione della domanda aggregata. Il fascino dell’idea delle stabilizzazioni espansionistiche (nata, è importante ricordarlo, proprio in Germania) è proprio questo: suggerisce che questo conflitto di obiettivi non esista. Che il ridimensionamento dello stato non ponga un problema di domanda e di crescita ma che lo risolva.
Ma se un rilancio delle politiche di deficit spending rappresenta l’unica via d’uscita percorribile, perché il partito della spesa non riesce ad imporsi? Di certo l’errore è una categoria storica importante. Ed è certo pure che l’assetto di Maastricht non ha realizzato il promesso ampliamento dello spazio della politica economica in Europa, ma un labirinto di vincoli nel quale gli interessi dei singoli stati si sono contrastati a vicenda e infine smarriti. Vi è però, a mio avviso, un livello più profondo al quale bisogna spingersi per cercare una risposta, rispetto al quale le differenze tra gli USA e l’Europa si attenuano.
La storia del trionfo del keynesismo
La storia del trionfo del keynesismo dopo la seconda guerra mondiale non è la storia di una buona idea che si impone con la sua forza di persuasione. Vi è da considerare in primo luogo il disastro della guerra. Il ruolo giocato dalla concorrenza di un sistema di produzione alternativo a quello basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione nell’attenuare la tendenza del movente del profitto a sganciarsi dal fine sociale della produzione è un secondo fattore che non può essere trascurato.
Insieme al fatto che la politica della spesa pubblica rispondeva allora in modo inequivoco alle esigenze dei capitalisti che controllavano il bilancio pubblico, data la natura preminentemente nazionale del loro raggio d’azione e il loro diretto interesse alla realizzazione di importanti opere infrastrutturali (si pensi, ad esempio, al ruolo svolto dall’industria automobilistica italiana e tedesca nel favorire la costruzione di un’efficiente rete autostradale pubblica), esso costituisce l’elemento che ha fatto pendere l’ago della bilancia a favore del deficit spending.
E’ ormai da oltre un trentennio che queste condizioni sono assenti. Lo sono negli USA, dove il populismo creditizio ha a lungo offerto un surrogato di politiche di gestione della domanda aggregata, e lo sono in Europa, dove la bassa crescita è diventata endemica. Ed allora può capitare di leggere che, se anche fosse una buona idea ricorrere alla spesa pubblica, non vi sono nuove spese da fare, non avendo alcun senso costruire un’altra Autostrada del Sole. Sarebbe facile rispondere che se di un’altra Autostrada del Sole non si sente nessun bisogno (basterebbe semplicemente completare e rendere di nuovo pubblica quella che abbiamo), di un serio piano di riqualificazione di scuole, ospedali, dei trasporti locali, di un patrimonio artistico e ambientale ormai in avanzato degrado, il bisogno è enorme.
Il fatto però è che per il capitale riqualificare scuole e ospedali è come far scavar buche e riempirle. Dal progressivo degrado della legittimità sociale del sistema non si sente minacciato e quindi non vede l’immediato bisogno di arrestarlo. Di innalzare civilmente e professionalmente in senso universalistico forze di lavoro largamente eccedentarie non avverte nessuna necessità. Di allargare la produzione pubblica di beni e servizi sociali ancor meno, vedendo in essi, al contrario, un’importante area da acquisire. Resta il bisogno di domanda pagante.
Ma domanda pagante addizionale in un contesto distributivo sempre più sfavorevole al salario e che tale deve rimane non è chiaro in che modo possa essere generata. Non stupisce come da questo ribassamento del keynesismo, dall’illusione che lo si possa fare senza stato e senza redistribuzione sia potuta nascere l’idea che il problema poteva essere risolto sgravando i più ricchi dall’imposizione o finanziando i consumi con l’assistenza della banca centrale. Gli Stati Uniti invocano investimenti pubblici infrastrutturali, ma sono di fatto attivi nella sola espansione dello stato del warfare.
L’Europa cerca la sua via d’uscita in una contrazione dello stato del welfare. Non è oggi chiaro quanta dose di disastro sarà necessaria per sciogliere questi nodi.