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Oltre l’austerità: Deutschland, Deutschland …Über Alles
domenica 26 agosto 2012, di
Riportiamo qui un interessante contributo scritto dal Prof Leonardo Paggi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Modena e Reggio Emilia e Massimo d’Angelillo, economista, consulente per l’avvio di nuove imprese e attuale presidente di Genesis srl - Bologna, pubblicato nell’ebook uscito con la rivista Micromega online dal titolo Oltre l’austerità.
Stiamo vivendo un singolare paradosso
L’Europa, che fornisce ancora circa un quarto del PIL mondiale, è diventata l’anello più debole della crisi finanziaria. Da questo dato di fatto è indispensabile partire per apprezzare il significato non congiunturale della politica malthusiana, di apparente “non-intervento”, inaugurata dalla Germania con la esplosione del debito greco, nel giugno 2010. A differenza di quanto è avvenuto negli Stati uniti, ove la Fed stampa moneta e acquista il debito, la crisi bancaria si è rovesciata da noi in crisi dei debiti sovrani, con quell’avvitamento e quell’intreccio catastrofico dei due fenomeni di cui ci parla la cronaca di ogni giorno.
Nello stesso tempo la pressione esercitata dai mercati finanziari spinge verso una polarizzazione crescente tra paesi avanzati e paesi arretrati. Il sistema delle differenze viene sottoposto ad una esasperazione crescente che vanifica qualsiasi ipotesi europeista di “convergenza” tra le economie del continente. Senza impegnarsi in previsioni più o meno fosche sul futuro dell’euro è possibile affermare fin da ora che la crisi finanziaria ha già segnato la fine della Unione europea intesa come zona di cooperazione e di integrazione.
La moneta unica, che doveva essere nelle intenzioni dei firmatari di Maastricht lo strumento attraverso il quale ancorare al progetto europeo la Germania riunificata, sta funzionando come strumento di accelerazione del dominio dell’economia più forte su tutte le altre. La moneta, ben lungi dall’essere, come vuole la dottrina fondativa della Bce, neutrale mezzo di scambio, è il medium in cui vengono fissati tutti i rapporti sociali.
Nessuna sorpresa quindi che le gerarchie economiche si stiano traducendo anche in gerarchie politiche attraverso un processo di regime change, o di vera e propria satellizzazione politica, che cominciato in Grecia con la cancellazione del referendum richiesto dal presidente consiglio in carica lo scorso ottobre, è continuato in Italia nel novembre con la formazione del governo Monti, per fallire solo per un soffio (l’1.5% dei voti) nelle presidenziali francesi di questa primavera.
L’asimmetria tra l’economia tedesca e le altre economie europee rende ormai problematica qualsiasi ipotesi di governo paritario dell’ Europa; Il modello sostanzialmente deflattivo che si è affermato in Germania non rende plausibile l’ipotesi che il paese funga in un futuro prossimo come motore dello sviluppo europeo. Su ciascuno di questi due punti conviene soffermare separatamente l’attenzione.
Sul terreno dei rapporti intraeuropei il dato più ricco di implicazioni politiche è la fine di fatto dell’asse franco-tedesco, che è stato per decenni il baricentro del processo unitario. La consapevolezza che tra i due paesi si è determinato un serio squilibrio nei rapporti di forza economici è ormai diffusa in Francia. Il dibattito che si è aperto sul recente libro di Jean Pierre Chevenemant La France est-elle finie? ne è una dimostrazione.
Gli indicatori di base parlano chiaro. Il rapporto tra ricerca scientifica e PIL, due volte superiore a quello del’Italia, è nettamente inferiore a quello della Germania (vedi Grafico 1)
Il conseguente squilibrio nei livelli di competitività si riflette nelle rispettive quote di commercio mondiale: l’8.5% della Germania a fronte del 4.6% della Francia, nel 2010. Nello stesso anno il surplus commerciale di 153 miliardi di euro della economia tedesca sta a fronte di un deficit di 64 miliardi dell’economia francese. Tra il 2000 e il 2010 la Francia regredisce in termini di quota manifatturiera mondiale dal 4.0% al 2.9%.
Comparativamente con la Germania, il ridimensionamento industriale della Francia interessa tutti i settori ad alto contenuto tecnologico, dall’automobile alla meccanica industriale. Unica eccezione è l’industria aerospaziale. Significativo anche il modo in cui i due paesi hanno reagito alla rivalutazione dell’euro: mentre la Francia delocalizza interi stabilimenti produttivi, la Germania persegue una delocalizzazione “verticale”, ossia relativa alle fasi del ciclo lavorativo con più basso lavoro aggiunto.
Si eliminano in questo modo posti di lavoro di livello inferiore , mentre si salvaguardano quelli con più elevato livello di specializzazione. Riassuntivi i dati relativi al PIL: a partire dal 2006 il tasso di crescita della Germania diventa sistematicamente superiore a quello della Francia (vedi Grafico 2).
Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale nel 2010 il PIL tedesco ha superato del 28.2% quello francese. La Germania diventa così la quarta economia mondiale, dopo Usa, Cina e Giappone. Soprattutto se messi a confronto con quelli tedeschi i dati dell’economia italiana parlano di una vera e propria decadenza.
Gli anni 80 e 90 vedono il fallimento dei maggiori gruppi industriali, una ondata di privatizzazioni che colpisce anche settori tecnologicamente avanzati dell’industria di stato, la diffusione a tappeto della piccola e media industria, con inevitabili riflessi negativi sul rapporto tra ricerca e PIL.
Senza entrare qui nel merito di tutti i mali della nostra economia, i dati dell’interscambio commerciale tra Italia e Germania parlano di una nostra drammatica perdita di peso industriale. I più cospicui deficit commerciali si accumulano proprio nei settori a più forte contenuto tecnologico: chimica, farmaceutica, elettronica, autoveicoli, macchinari, e persino anche nel settore alimentare!
Il drastico mutamento nei rapporti di forza in Europa occidentale si intreccia con un terremoto geopolitico in Europa orientale, che dopo il crollo dell’Unione sovietica si apre ad una nuova grande espansione della influenza tedesca. Ha il significato di una svolta storica la normalizzazione dei rapporti tra Germania e Polonia con il riconoscimento definitivo, alla metà degli anni 90, della frontiera Oder-Neisse.
La strategia tedesca di una rapida inclusione nella Ue dei paesi dell’Est converge pienamente con le pressioni americane per un rapido allargamento della Nato. La duplice affiliazione a Nato e Ue si configura per i paesi postcomunisti come la risposta obbligata alla crisi del blocco sovietico.
Ne consegue una contrazione netta della dimensione mediterranea dell’Unione (successivamente riproposta, ma in modo fallimentare, da Sarkozy), e la riapparizione improvvisa di una vera e propria Mitteleuropa. In una analisi del nuovo ordine mondiale, del 1997, Z. Brzezinski , affacciando la possibilità che questo allargamento dell’Ue potesse rovesciarsi in “una definizione più nazionalistica dell’ordine europeo” così continuava: “Wolfgang Schauble, presidente dei cristiano-democratici nel Bundestag e probabile successore di Kohl, ha dato voce a questa propensione dichiarando: la Germania non è più il baluardo occidentale contro l’Est; siamo diventati il centro dell’Europa”.
Né certo si può dimenticare in questo quadro il ruolo di fondamentale interlocutore europeo della Russia che il paese è venuto svolgendo negli anni, a partire dalla sempre più cruciale questione energetica. In virtù della sua forza economica e della sua collocazione geopolitica la Germania detiene ormai un potere di contrattazione e di coercizione che viola in quanto tale la logica paritaria preposta al processo di costruzione europea.
Non è quindi un caso che in tutte le sue modalità di esistenza nella Ue la Germania faccia sempre più insistente riferimento ad una logica di rapporti bilaterali di tipo intergovernativo. Le ragioni, invece, della politica di austerità che essa impone attualmente all’Europa, in aperto contrasto con le insistenti richieste di reflazione provenienti dalla attuale amministrazione Usa, possono essere rintracciate solo al’interno del nuovo modello di sviluppo uscito congiuntamente dalla unificazione del paese e dagli sviluppi della globalizzazione finanziaria.
“L’Europa vuole prendersi i nostri soldi. La Cancelliera ha lottato fino all’ultimo. E ora i tedeschi dovrebbero pagare per i debiti degli altri?” Sono i titoli di apertura di “Welt am Sontag” del 30 giugno (voce semiufficiale del governo) a commento del vertice europeo appena conclusosi con un modesto (e ancora incerto) impegno del fondo salva stati a moderare la speculazione finanziaria sul debito di Italia e Spagna.
Non diverso il tono della “Frankfurter Allgmeine”, che in un editoriale di aperta censura ai “cedimenti” della Merkel, si domanda: ”Se Italia e Spagna non sono pronti per le riforme, perché i paesi del Nord devono pagare per i trasferimenti?”
Sorge una domanda. Come si è arrivati nel più grande paese europeo al consolidamento (sia negli indirizzi di governo che in una parte largamente maggioritaria dell’opinione pubblica) di una ortodossia di stampo leghista che può impunemente spostare la responsabilità della crisi dallo strapotere dei mercati finanziari alla pretesa lassitudine dei paesi mediterranei ostinati a “vivere al di sopra delle loro possibilità”?
E ancora: come può non esservi menzione negli organi di stampa del paese (nemmeno nell’europeista “ Sueddeutsche Zeitung”) del fatto che sullo spread la Germania lucra quotidianamente una vera e propria rendita finanziaria che va ad ammortizzare di fatto la sua spesa per interessi? La risposta, non facile e immediata, può essere forse trovata solo ripercorrendo i tempi e i modi in cui l’economia tedesca ha incrociato e reagito ai processi di globalizzazione degli ultimi tre decenni.
Negli anni 80, quando l’Inghilterra imbocca consapevolmente la strada di una economia dei servizi finanziari, la Germania affronta le nuove sfide del mercato internazionale con una grande riqualificazione del proprio settore manifatturiero, ponendosi contemporaneamente, tramite lo SME, come il cane da guardia della stabilità monetaria in Europa. Le scelte della Bundesbank divengono già ora punto di riferimento obbligato per le banche centrali europee.
In questi anni Ciampi, Monti, Padoa Schioppa, (la nostra futura classe di governo), si convincono che per l’Italia non esista altra medicina che introiettare la “cultura della stabilità” propugnata dai tedeschi in materia di moneta e finanza, dimenticandosi purtroppo dei grandi problemi, lasciati totalmente intonsi !, che assillano il nostro apparato industriale.
Che il controllo della inflazione diventi con Maastricht la prerogativa essenziale ed anzi esclusiva della nuova banca europea è dunque la registrazione di una vittoria che il punto di vista tedesco ha già conseguito sul campo nel corso di un intero decennio. In questa capacità di combinare una continua innovazione produttiva con il mantenimento di una moneta forte è già implicita la capacità della economia tedesca di rispondere positivamente, da protagonista, alla ininterrotta crescita della influenza del capitalismo finanziario che si dispiega nei due decenni successivi.
L’ obbiettivo della unificazione che si impone di necessità con la inaspettata caduta del muro di Berlino mette la Germania di fronte a sfide ardue. La decisione tutta politica di Kohl di stabilire un rapporto di parità tra i due marchi apre grandi opportunità di consumo alla parte orientale del paese, ma decreta nello stesso tempo il collasso di tutto il suo settore industriale.
Nonostante un massiccio programma di investimenti infrastrutturali nella parte orientale del paese, quando nel 1998 la socialdemocrazia torna al governo con Schroeder la disoccupazione oscilla tra l’8 e il 10%, il tasso di crescita è in calo e le esportazioni hanno perso di aggressività (vedi Grafico 3)
La tendenza negativa si origina dal fatto che le esportazioni tedesche non riescono più a esercitare la funzione di traino che avevano avuto nei decenni precedenti. Sono anni in cui nell’opinione pubblica tedesca (e internazionale) serpeggia il dubbio che la Germania sia avviata ormai verso un inesorabile declino.
Il governo Schröder si concentra sul potenziamento della competitività nazionale , proprio nel momento in cui, in politica estera, rifiuta il coinvolgimento nella guerra in Iraq. Invece di farsi coinvolgere in una guerra americana per il petrolio, si preferisce, già allora, tessere relazioni con i grandi paesi emergenti dell’Asia, dalla Cina, all’India alla Russia.
Il programma “Agenda 2010” che Schroeder presenta al Bundestag nel marzo 2003, dopo aver respinto i tentativi della sinistra del partito di andare a forme di controllo dei movimenti di capitale, è di netta ispirazione liberista, in tutto consentanea con il New Labour di Blair, che vede nella globalizzazione la soluzione automatica di tutti i problemi, e con i postcomunisti italiani che, giunti ora in posizione di governo, dichiarano, disseppellendo Gobetti, di volere attuare una “vera” rivoluzione liberale. Il programma di Schroeder prevede tagli di imposte ( in particolare una riduzione del 25% delle imposte sul reddito), tagli nelle pensioni e nei sussidi di disoccupazione, e soprattutto un pacchetto di misure di flessibilizzazione del mercato del lavoro chiamate Hartz I-IV, dal nome del ministro Peter Hartz ex capo del personale della Volkswagen.
Tocca insomma proprio alla SPD portare un duro colpo alla logica di quello che è stato chiamato da Michel Albert il “capitalismo renano”, ossia un capitalismo volto a coniugare efficienza economica con la preservazione di spazi di vita sociale dalla logica omnipervasiva del mercato.
Sarebbe tuttavia insufficiente limitarsi a registrare, e a condannare, un mutamento sostanziale dello spettro ideologico politico della sinistra tedesca. “Agenda 2010” diventa comprensibile in tutta la sua portata solo se proiettato sullo sfondo di una trasformazione profonda del capitalismo tedesco che prende le mosse quanto meno dagli inizi degli anni 90. Studi del Max Plank Institute riconducono queste trasformazioni a quella che viene definita con formula d’insieme una crisi dello Organisierter Kapitalismus.
La formula, avanzata per la prima volta negli anni 20 dalla SPD di Hilferding e Naphtali in collegamento con la prospettiva politica di una “democrazia economica”, ripresa negli anni 60 dal Modern Capitalism di Andrew Shonfield, come sinonimo di “capitalismo manageriale” e infine negli anni 70, in funzione antimarxista, dalla storiografia liberale di Wehler e Kocka, vuole significare un capitalismo dotato al suo interno di forti elementi di direzione consapevole, con particolare riferimento a:
– 1) una forte compenetrazione di banca e industria e
– 2) una pronunciata integrazione politica del movimento operaio come condizione di stabilità sociale e di competitività economica.
E’ proprio in riferimento a questi due risultati storici che vanno commisurate le innovazioni principali che influenzano negli ultimi due decenni la vita economica della Germania. Il dato centrale è il progressivo indebolimento della rete di partecipazioni incrociate quale si è sempre realizzato attraverso la composizione dei consigli di amministrazione. Il fenomeno diventa particolarmente visibile nel momento in cui Deutsche Bank (DB) e Allianz, i due grandi gruppi attorno a cui ruota gran parte dell’industria del paese, cominciano a perdere il ruolo di crocevia strategico della economia tedesca.
Il motore del cambiamento sta nella “rivoluzione culturale” che investe DB all’inizio degli anni 90, quando nel quadro di una crescente liberalizzazione dei movimenti dei capitali si avvia una sua progressiva ma inarrestabile metamorfosi da banca commerciale in banca di investimenti. Il proposito è di “fare come Wall Street”, ossia di contestare al capitale finanziario americano la sua indiscussa egemonia mondiale.
Già nel 2001 la direzione di DB annuncia ufficialmente di non volere più presidenze di consigli di amministrazione in settori non finanziari. Né è dettaglio di secondaria importanza che nello stesso anno il governo Schroeder decida, con il voto contrario dello CDU, di abolire la tassa sui profitti finanziari. La nuova specializzazione da ottimi risultati.
Secondo un recente rapporto del senato Usa DB deve essere considerata insieme a Goldman & Sachs la principale responsabile della crisi dei subprime. Più in generale la diffusione sempre più ampia, nell’intero sistema economico tedesco, del principio dello “Shareholder value”, ossia della priorità degli interessi (anche di breve e brevissimo periodo, rispetto a logiche di valorizzazione nel lungo termine) dell’azionista, sta a testimoniare uno slittamento complessivo verso le forme più caratteristiche del capitalismo anglosassone. La implosione dello Organisierter Kapitalismus trova precise corrispondenze sul versante del lavoro, che registra una crisi di tutta l’architettura e della logica politica societaria a cui si è informata la Mibestimmung. Rafforzamento in primo luogo del potere dei consigli di fabbrica rispetto al ruolo dei sindacati.
Esemplare in questo senso il fallimento cui va incontro nel 2003 il tentativo di IG Metall di imporre le 35 ore nella parte orientale del paese, causato in gran parte proprio dal disinteresse delle rappresentanze di base. Progressivo decentramento, in secondo luogo, della contrattazione salariale e, infine, indebolimento del potere di direzione politica dei vertici della DGB a favore del peso crescente dei sindacati di categoria. L’offuscamento della dimensione dell’interesse nazionale e comunitario indotto dalla finanziarizzazione va dunque di pari passo con la frammentazione e corporativizzazione della organizzazione sindacale. La legge Hartz non fa che ribadire e accentuare un indebolimento della rappresentanza del lavoro che è già in atto per suo proprio conto. Che nelle istituzioni chiave dell’economia tedesca realizzi questa conversione strategica dalla industria nazionale alla finanza internazionale non è certo privo di implicazioni politiche.
Non è casuale che a fronte di una perdita di ruolo di tutte le banche centrali europee Bundesbank veda crescere il suo peso politico non solo interno ma anche internazionale. La capitale, è stato scritto di recente, si sposta sempre più a Francoforte.
Il Governo di Angela Merkel
La tenacia con il cui il governo di Angela Merkel imposta una politica europea sempre più punitiva nei confronti dei paesi con maggiore esposizione debitoria non è spiegabile senza fare riferimento al crescente ruolo politico di una DB che ad onta delle perdite subite nel 2008 (- 5,7 miliardi euro) è sempre più determinata a portare avanti una strategia incentrata sullo sviluppo della speculazione finanziaria.
La continuità nella storia tedesca di una politica di moneta forte non deve quindi fare ignorare le profonde cesure che si stabiliscono al suo interno. Fissatasi negli anni 70 e 80 come strumento per rafforzare il sistema produttivo e garantire il benessere dei lavoratori questa politica monetaria e valutaria comincia a cambiare di segno nel corso degli anni 90. Progressivamente liberata dai vincoli “societari” dello Organisierter Kapitalismus una parte essenziale del mondo bancario si è gettata in massicci investimenti speculativi sui mercati a più alto rischio(derivati, materie prime, debito pubblico dei paesi più esposti), dando luogo alla costituzione di un nuovo potere cosmopolita, molto più interessato a inseguire e controllare le emergenze finanziarie che a progettare uno sviluppo industriale dell’ Europa nel suo insieme.
Il “riformismo” e le “modernizzazioni” di Schroeder vengono pagate duramente dalla SPD, che subisce la scissione di Lafontaine, perde consecutivamente le elezioni del 2005 e del 2009, entrando poi in una crisi di identità da cui non sembra per ora riuscire a riprendersi, nonostante la imminenza della nuova scadenza elettorale del 2013.
Ciononostante gli effetti di quelle misure sono positive per l’economia tedesca che proprio in coincidenza con la fine del mandato di Schroeder e l’inizio dell’era Merkel si stabilizza su valori positivi (vedi grafici 4 e 5).
Tra il 2005 e il 2011 la crescita del Pil registra una interruzione solo nel 2009, ossia solo in coincidenza con la fase più acuta della recessione internazionale. Mentre il tasso di disoccupazione si mantiene entro valori relativamente contenuti, scendendo dall’ 11.7 al 7.1, sia pure attraverso la costituzione di una vasta zona di precariato.
Nello stesso periodo le esportazioni conoscono un rilancio significativo, ma con due innovazioni importanti rispetto al passato:
– a) si accompagnano, a differenza con quanto avveniva con il Modell Deutschland di ispirazione socialdemocratica, con una sostanziale compressione della domanda interna;
– b)intercettano in misura significativa il crescente bisogno di manufatti dei paesi del Brics.
Dal 1999 ad oggi le esportazioni tedesche verso la Cina crescono del 600%, marcando una eccezionale impennata negli ultimi tre anni. Nello stesso periodo l’aumento delle esportazioni nell’eurozona si aggira intorno al 70%. Più precisamente: tra il 2008 e il 2010 l’export tedesco nella zona dell’euro passa dal 43% al 41%, mentre sale dal 12% al 16% nei paesi del Brics. Tra il 2006 e il 2009 gli investimenti in Russia sono pari a +132,6%, +51,5% in Cina,+35,9% in Brasile, ma -10,2% in Spagna, -10,6% in Francia, - 17,6% in Italia, - 33,4%. Mentre l’Europa arranca, la Germania si costruisce una proiezione mondiale. Due sembrano essere i riflessi politici più significativi di queste tendenze economiche.
– In primo luogo un appannamento della prospettiva europea;
– in secondo luogo, una più marcata ricerca di autonomia dagli Usa, sia sul terreno della politica energetica (con un sostanziale riciclaggio della vecchia Ostpolitik) che su quello della politica estera tout court (con il rifiuto, non pacifista!, delle guerre Nato, prima in Irak e poi in Libia).
L’alternativa secca che la cultura liberal e keynesiana americana (in primo luogo Paul Krugman) sta ponendo tra la scelta di una via conseguentemente federale e l’inevitabile crisi dell’euro non ci sembra colga la complessità e l’ambiguità della situazione che si è determinata in Europa.
La Germania non ha nessuno interesse a spingere la sua politica di “non intervento” fino all’affondamento dell’euro, per il peso decisivo delle quote di mercato che mantiene nel vecchio continente, per il controllo delle svalutazioni competitive che la moneta unica garantisce, e infine per l’inevitabile rivalutazione cui andrebbe incontro una eventuale rinascita del marco.
La prospettiva più realistica sembra invece essere quella di una assunzione dell’Unione europea come necessaria e indispensabile retrovia di una crescente presenza mondiale. Certo, la costituzione in Germania di un sempre più diretto potere politico del capitale finanziario, in nessun modo interessato ad una prospettiva di lavoro e di crescita per l’insieme dei paesi europei, implica una forte deviazione rispetto al modello americano di egemonia affermatosi esemplarmente dopo il 1945 con il piano Marshall. Ma non se devono trarre conseguenza facilmente catastrofiche.
Non si può dimenticare che sono stati gli americani per primi a rovesciare il tavolo della crescita complessiva di sistema (centro e periferia insieme), quando hanno consapevolmente mandato a picco, trent’anni or sono, il sistema di Bretton Woods, affidando la loro presenza mondiale alla supremazia del dollaro sui mercati finanziari.
E non è proprio nella società americana che per la prima volta sono comparsi quei fenomeni di polarizzazione sociale che si stanno ora diffondendo a catena nell’insieme dei paesi occidentali? E non è forse poi platealmente fallito il tentativo di rispondere alla caduta della domanda interna con lo sviluppo abnorme del debito privato? La Germania sembra ormai perseguire una sua strategia di dominio nettamente differenziata rispetto al modello americano che si afferma in Europa dopo la seconda guerra mondiale con la diffusione del mass consumer market.
Le politiche di austerità imposte tramite un governo della moneta e della finanza volto a soddisfare le richieste primarie del capitale finanziario stanno determinando infatti una paradossale ripoliticizzazione di tutti i rapporti intraeuropei.
La scelta di lasciare ai mercati il compito di determinare i tassi di interesse - su cui in questi mesi di crisi ha sempre martellato con tenacia il presidente della Bundesbank - si sta rivelando non solo economicamente depressiva, ma anche politicamente lesiva sul terreno della democrazia.
In questo nuovo progetto di governo della Ue la libertà che viene lasciata ai mercati di svolgere incontrastati la loro opera di “disciplinamento” spinge infatti i paesi più indebitati a devolvere porzioni sempre più ampie di sovranità nazionale in cambio di condizioni di credito meno catastrofiche. Ma lo svuotamento delle sovranità nazionali, che pure sono tuttora condizione imprescindibile per l’esercizio di qualsiasi democrazia, va di pari passo con l’offuscamento progressivo del volto comunitario dell’Unione.
A danno delle istituzioni federali prende infatti sempre più piede un controllo intergovernativo (il ruolo crescente del consiglio europeo va in questa direzione) che spinge all’accentramento di fatto di tutte le decisioni nelle mani di un solo paese: la Germania. Austerità fiscale, deresponsabilizzazione e subordinazione politica stanno andando di pari passo.
La manovra di bilancio, da un lato si spoliticizza, in ragione di condizioni e modalità di attuazione prestabilite ex ante, con vari dispositivi automatici, dall’altro si caratterizza per una precisa valenza politica, in ragione dei sui contenuti economici e sociali punitivi, ma anche per la espropriazione senza contropartite federali delle sovranità nazionali che essa comporta.
Se si esclude, come noi propendiamo, l’ipotesi di una fine catastrofica dell’euro, non è facile immaginare le linee di rottura di quella vera e propria gabbia di acciaio in cui è stata trasformata la Ue. La forza di costrizione della economia tedesca deriva dalla sua capacità di rimanere in sintonia con le richieste del capitale finanziario e di avvantaggiarsi simultaneamente della grande domanda di manufatti industriali proveniente dai paesi che saranno nei prossimi anni i veri protagonisti dello sviluppo.
Ossia di saper cavalcare la mondializzazione finanziaria e la mondializzazione produttiva. Per quanto riguarda il terreno sociale la creazione di vaste zone di lavoro precario e di basso salario(talvolta inferiore anche ai 5 euro) continua ad essere compensata da ammortizzatori di tutto rispetto, ed è proprio di Angela Merkel la decisione di includere nel programma elettorale della CDU la richiesta di un salario minimo garantito. Bismarck non è passato invano nella storia della Germania!
L’opinione pubblica tedesca
Per quanto riguarda l’opinione pubblica del paese la politica autoritaria fondata sulla disciplina e sulla punizione sta purtroppo incontrando un rinascente senso di autostima nazionale. L’opposizione europeista alla linea del governo è oggi molto più debole di quanto non fosse all’inizio dello scorso autunno. Le risposte, dunque, non potranno che venire dai paesi massacrati quotidianamente dalla linea della austerità, che si fonda sul seguente paradosso: la creazione di liquidità, ritenuta esiziale per la stabilità dell’euro se generata da politiche di deficit spending, può diventare illimitata se serve per salvare banche o per metterle in condizione di continuare la speculazione.
Questa istituzionalizzazione della emergenza preclude ai paesi più deboli qualsiasi possibilità di innovare e rilanciare il proprio apparato produttivo. Il disagio sociale è sicuramente destinato a crescere, ma in presenza di un deficit generalizzato di classe politica capace di farsene interprete.
E in italia?
Per quanto riguarda il nostro paese, si tratta di prendere atto della fine miseranda del carnevale iniziato vent’anni orsono in nome della “modernizzazione” ideologica e politica. Qualsiasi tentativo di ricostruire una politica democratica non potrà non partire dalla constatazione di fatto che i Napolitano, i Monti, i Bersani, ossia il blocco politico erede di questa storia di fallimenti, che si candida ora a vincere le elezioni del 2013, contraddice giornalmente ai più elementari interessi nazionali del paese, perseverando in una linea di azione sistematicamente decisa altrove.