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Protezionismo: cos’è e quali sono gli effetti dello “slogan” di Trump?

mercoledì 15 febbraio 2017, di Giulia Mirimich

Divenuto una sorta di ombra che incombe sulla politica - in particolar modo quella americana - il protezionismo è divenuto quasi uno "slogan" di Donald Trump.

Il neo presidente USA non ha mai fatto mistero della sua simpatia nei confronti delle politiche protezionistiche, al punto da sostenere che una nazione senza frontiere non è una nazione.

Dunque per Trump protezionismo è certezza, è sicurezza, tanto economica quanto politica per il popolo americano. Il protezionismo è la via della ripresa, lastricata soprattutto dalla valorizzazione del made in USA.

Ma per noi comuni mortali non proprio ferratissimi in materia di mercato, cos’è esattamente il protezionismo? E perché sono sempre di più i paesi che guardano al protezionismo come ad un toccasana per la propria economia?

Il protezionismo ha come principio base quello della tutela del prodotto interno, quindi prodotto dalla nazione, dalla concorrenza estera. In che modo? Principalmente attraverso un pesante sistema di dazi che ne scoraggino il consumo e l’impiego.

Dunque, ad una prima riflessione, sorge spontaneo credere che una politica economica protezionista incentivi la produzione nazionale, andando non soltanto a ridurre il problema della disoccupazione e ad arricchire chi produce, ma favorendo anche una crescita economica.

Eppure, se nel corso della storia le politiche protezionistiche adottate non hanno mai portato ad alcun tipo di avanzamento concreto dal punto di vista economico, un motivo c’è.

Protezionismo: riduce il potere di acquisto?

La realtà dei fatti è che i dazi pesano. E il loro peso si ripercuote in primis sul loro prezzo che, di riflesso, diventa notevolmente più caro rispetto ai prodotti nazionali: questo proprio per scoraggiarne il consumo e preferire ciò che viene prodotto internamente.

Poco importa se si tratta di materie prime e beni fondamentali, lo scopo principale è quello di favorire la vendita del prodotto interno. Il contributo fiscale automaticamente va a ridurre il potere di acquisto dei cittadini, in particolare dei più poveri.

Riducendo il loro potere di acquisto la crescita economica non può di certo avanzare. 
Oltretutto, non è un caso se negli ultimi cento anni il livello di povertà ha subito un ridimensionamento notevole (circa l’80%) con un’impennata in corrispondenza dell’apertura dei mercati.

Il libero mercato, in generale, sarebbe l’unica via percorribile per muoversi verso un miglioramento non soltanto delle economie investite dalla crisi globale, ma anche delle condizioni degli stati più poveri. Se applicato secondo le norme, il liberalismo dovrebbe garantire soprattutto una più equa ridistribuzione del reddito.

Ma se il libero mercato finora sembra aver fatto cilecca, il problema non è da ricercare nelle sue dinamiche, bensì nelle politiche che lo hanno mosso e che ne hanno tirato i fili.

La soluzione agli squilibri di questo mercato libero, figlio legittimo della globalizzazione del XX secolo, non può essere ricercata nella chiusura del protezionismo, in totale antitesi con i nostri tempi e la nostra cultura.

Occorrerebbe piuttosto individuare una nuova via per la globalizzazione, rigidamente controllata e scandita da regole volte a proteggere sì i produttori ma soprattutto i consumatori, primi responsabili della crescita economica.

L’integrazione dei mercati e quindi delle economie deve imparare ad andare di pari passo con quella delle politiche, così da favorire una cooperazione a livello globale. 
Dal canto loro, le politiche devono imparare che il modo più efficace per salvaguardare le proprie economie è quello di farle interagire e non chiuderle.

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