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Stato e Democrazia: cosa dobbiamo fare per salvare l’Italia?

domenica 5 gennaio 2014, di Dimitri Stagnitto

Noi fummo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
G. Mameli, Il Canto degli Italiani / Fratelli D’Italia

Sta diventando sempre più normale per gli italiani vedere lo spettro dei loro diritti di cittadini ridursi sempre più: dai limiti di pagamento in contanti allo spesometro, passando per intercettazioni e un carico fiscale in continuo aumento, essere italiano è oggi più che mai difficile.

Lo Stato si pone oggi come garante della "stabilità" dove con questa parola si intende la garanzia del pagamento di quanto dovuto, interessi inclusi, ai possessori (in buona parte esteri) di titoli del debito pubblico italiano, il tutto in barba alle reali esigenze legate al momento storico dei cittadini che sottostanno allo Stato stesso: disoccupazione (soprattutto giovanile) da record, come già detto tasse alle stelle e al contempo servizi ridotti all’osso a causa di continue spinte alla "riduzione dei costi dello Stato".

Lo Stato è quindi il Golem incontrollabile da abbattere? A ben vedere, no.

Di per sè, lo Stato si caratterizza come l’unico soggetto legalmente autorizzato all’uso della forza su un dato territorio: può essere quindi repressivo e nemico del suo stesso popolo o limitarsi a garantire il rispetto della legge e la civile convivenza.

Appare chiaro come la prima opzione sia da temere ed evitare mentre la seconda rappresenti una situazione desiderabile, base imprescindibile per una società moderna e prospera.

Tutta questa premessa è necessaria per sottolineare un sottile ma sostanziale errore logico promosso da diverse correnti politiche ed economiche per le quali lo Stato, essendo per sua natura repressivo e nemico del popolo (nello specifico della libertà di impresa economica e di accumulo del profitto), vada ridotto e abbattuto riducendone le funzioni e l’impronta economica e, come è avvenuto nel nostro Pese negli ultimi lustri, delegando delle funzioni proprie dello Stato ad enti sovranazionali (ex. Unione Europea) e procedendo a dismissioni di patrimonio pubblico, in particolar modo di imprese produttive.

Per ironia della sorte (o per preciso calcolo, la Storia sarà giudice al riguardo), proprio questo processo di lento abbattimento dello Stato trasforma lo stesso poco a poco nel tipo di Stato che nessuno si augurerebbe: costretto da corde che lo imprigionano e lo muovono dall’esterno a imporre la sua forza contro i suoi stessi cittadini.

Parafrasando un celebre guerriero Gallico (di fantasia): "Lo Stato ci sta cadendo sulla testa!".

Dovrebbe essere quindi chiaro a molti che il giusto approccio dei Cittadini nei confronti dello Stato non deve essere volto ad abbatterlo ma a modificarlo verso una forma desiderabile e positiva, situazione che peraltro abbiamo sperimentato finora per brevi e privilegiati momenti della Storia e di cui conosciamo bene pregi e benefici.

Lo stato quindi non si abbatte, si cambia. Ma come?

Il nodo cruciale è proprio questo: nella fase storica attuale in cui il disagio sociale è forte e la coesione minima (anni di informazione pilotata e di riduzione dello Stato come fattore attivo della vita del Paese hanno polverizzato nella popolazione idee e interessi) mancano i presupposti perché possa venirsi a creare una spinta positiva nei confronti dello Stato che porti la Nazione a riconoscere e a perseguire i suoi interessi e quelli della propria popolazione.

La trama che unisce Stato e Cittadini va ritessuta con pazienza e si tratta di un processo per forza di cose lungo e dagli esiti incerti. Fortunatamente abbiamo ancora a disposizione uno strumento fondamentale, per quanto depotenziato da anni di selezione inversa della classe politica e da leggi elettorali subottimali, che si chiama processo democratico.

Attraverso le elezioni è ancora possibile indirizzare la politica della parte vincitrice a patto che la massa degli elettori sia consapevole delle proprie istanze e si faccia vigilante circa la reale applicazione delle politiche proposte.

Al momento il processo è in fieri: la crisi sta creando fasce sempre più larghe di popolazione con gravi disagi e interessi comuni e la politica sta modificando lievemente in questi mesi il suo vocabolario iniziando a introdurre ala voce priorità "crescita" e "occupazione".

La sensazione è che si tratti per il momento di prese di posizione utili solo a guadagnare tempo scaricando almeno un minimo la pressione sociale.

Cambiamenti di rotta ben più decisi e risoluti sono necessari e riusciremo come Nazione a metterli in atto attraverso una spinta contro cui l’attuale classe politica non possa porre resistenza o, nel peggiore dei casi, più avanti con la rinascita di movimenti intenzionati a modificare lo status quo in ottica più autoritaria e sovversiva secondo un processo più tumultuoso e per forza di cose più travagliato e dannoso per i nostri interessi.

La soluzione sta quindi nel risveglio del senso civico e di appartenenza dei singoli cittadini che devono iniziare a chiedere a gran voce, e civilmente, che gli interessi nazionali siano perseguiti ignorando, almeno per il momento, interessi particolari di categoria o persino personali.

Richieste simili a quelle sentite sino ad ora che mirano a una riduzione dei privilegi particolari (ex. quelli della classe politica) piuttosto che alla promozione del benessere generale sono quindi controproducenti incanalando il disagio verso istanze distruttive e non costruttive.

Il vero costo della politica è la cattiva gestione dello Stato. Ci sarà tempo e modo per ridurre anche corruzione e privilegi ma anche questo passa inevitabilmente per un ritorno convinto del senso civico e del senso dello Stato: se i cittadini saranno migliori la classe politica non potrà che migliorare per semplice adattamento al nuovo contesto in cui opera.

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