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Mercato del lavoro: mancanza di merito più che mancanza di flessibilità!
mercoledì 17 settembre 2014, di
Con la crisi sempre più profonda che attanaglia l’economia e che porta alla continua perdita di PIL, naturalmente, assistiamo anche alla solita ricerca della “soluzione” che, partendo da determinati e differenti punti di vista, inquadra comunque sempre e solo il problema stesso nel mercato del lavoro e – diciamo – “dal lato” del lavoratore; e ivi trovava sempre anche la soluzione. Abbiamo allora sentito ancora ripetere, fino allo stremo, che “lavoratori troppo costosi e poca flessibilità sono il freno che blocca la ripresa della nostra economia” e che, pertanto, il taglio dei salari e l’aumento della flessibilità, con annessa diminuzione delle tutele, sarebbero dovute essere la via maestra per permetterci di uscire dal pantano economico e per portarci, attraverso l’austerità (in questo caso “privata”, fatta dai tagli di salario e di personale), verso la “prosperità”. Ancora una volta, pertanto, il problema veniva rilevato unicamente nel fattore lavoro, ma dal lato del lavoratore; ed essendo lo stesso il problema, la soluzione non poteva prescindere dal problema e, inoltre, da dei provvedimenti che potessero risolversi in una svalutazione interna.
Abbiamo già detto che i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa, hanno avuto una crescita minima dagli anni ’90 rispetto ad altri paesi e che se il problema fossero veramente i salari, l’Italia sarebbe messa meglio di altri paesi e non peggio. Quindi il problema “italiano” non possono essere i salari; e se non sono il problema, un loro taglio non può essere la soluzione. Per quanto riguarda invece la flessibilità abbiamo già riportato alcuni dati di fonte OCSE e FMI che testimoniano come il mercato del lavoro italiano sia già più flessibile di quello, per es. tedesco, che tutti additano come “benchmark” di riferimento.
Il fatto che il mercato del lavoro italiano sia già abbastanza flessibile sembra confermato anche dai dati del Global Competitiveness Report (per il periodo 2005-2011), che riportiamo (da Google Public Data) per fugare eventuali dubbi e per passare poi a quello che vorrebbe essere il “fulcro” dell’articolo. Prendiamo allora gli indici del Global Competitiveness Forum che ci interessano per l’Italia, alcuni paesi di riferimento (Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti) e la UE 27.
Grafico 1 – Flessibilità nella determinazione del salario (dove 1 indica una contrattazione prevalentemente centralizzata e 7 una contrattazione per singola azienda).
Grafico 2 – Flessibilità media (dove 1 è il minimo e 7 il massimo)
Grafico 3 – Indice di rigidità dell’occupazione (che tiene conto delle difficoltà di assumere, di licenziare, della rigidità degli orari e che va da 0, che è il risultato migliore, 100 che è il peggiore)
Per quanto riguarda la contrattazione (grafico 1), il paese nel quale la stessa è più centralizzata sembra la Germania; ma in questo caso anche l’Italia è lontana dal resto del “campione” considerato. Per la flessibilità media (grafico 2) l’Italia nel 2008 supera la Germania ed al 2011 anche la Francia (seppur di poco). Mentre per l’indice di rigidità dell’occupazione la Francia è al “vertice”, con al secondo posto la Germania seguita dall’Italia. Pertanto, se si volesse veramente indicare un modello per il mercato del lavoro, i dati supportano il fatto che, al massimo, i modelli di riferimento – se proprio vogliamo indicarne qualcuno - potrebbero essere quello inglese o quello americano; e non quello tedesco che anche i dati del Global Competitiveness Report confermano essere meno flessibile del nostro.
Una volta visti questi ulteriori dati che sembrano avallare il fatto che il problema potrebbe non essere la mancanza di flessibilità, visto che mercati del lavoro meno flessibili del nostro assurgono al “ruolo” di modello, cerchiamo di prendere in considerazione altri dati, sempre dello stesso report, che valutano il mercato del lavoro e la sua efficienza più dal punto di vista della capacità - diciamo - di “selezionare e premiare il merito e le capacità”, nel senso di saper trattenere, attrarre e valorizzare gli elementi migliori; e di assegnare le posizioni di vertice in “virtù” di capacità, qualifiche e merito - visto che anche questi sono indici di efficienza del mercato del lavoro - piuttosto che dal punto di vista della semplice e mera flessibilità (sempre per lo stesso “campione” sopra considerato).
Grafico 4 - Fuga dei cervelli (dove 1 indica una situazione per la quale non si riesce a tenere od attrarre i talenti per mancanza di opportunità, mentre 7 indica che si riesce a dare opportunità ed attrarre i più talentuosi)
Grafico 5 – Uso efficiente del talento (dove 1 è il minimo e 7 il massimo)
Grafico 6 – Ricorso a una gestione professionale (dove 1 indica una situazione in cui le posizioni direttive sono assegnate senza riguardo al merito e 7 l’assegnazione delle posizioni in relazione alla qualificazione ed al merito)
Per la fuga dei cervelli (grafico 4) sembra che l’Italia ed il suo mercato del lavoro non siano in grado né di trattenere e né, tanto meno, di attrarre i “cervelli”; non siano in grado di fare uso del talento (grafico 5) e non assegnino nemmeno le posizioni direttive (grafico 6) in relazione alle qualifiche ed al merito. Infatti l’Italia si trova “sul fondo” di tutti e tre i grafici; e ben staccata! Questo si è in linea con quanto ci sentiamo ripetere! Cioè, che l’Italia perde i suoi elementi più talentuosi che sono costretti ad emigrare all’estero se vogliono avere delle possibilità adeguate; e che le posizioni di vertice non sono il risultato di particolari qualifiche e capacità, oppure di una “selezione” di merito, bensì il portato di rapporti che prescindono dalle qualifiche e dal merito stesso.
Ora, sembra abbastanza chiaro dai grafici sopra riportati che se c’è un limite nell’efficienza del mercato del lavoro italiano questo non può essere individuato nella sua mancanza di flessibilità, ma semmai nella sua capacità di allocare le risorse; intendendosi come risorse la “forza lavoro” a disposizione. Infatti, sarebbe oltre l’assurdo far dipendere l’incapacità di attrarre o trattenere i più talentuosi (che fanno parte comunque della forza lavoro), o cervelli che dir si voglia, per esempio, dall’obbligo di reintegro previsto dall’art. 18 per il lavoratore ingiustamente licenziato; e sarebbe anche fuori luogo, perché come visto (nei grafici 1,2,3) l’Italia sembra garantire già abbastanza flessibilità rispetto ad altri paesi. Inoltre, in una economia come la nostra, che essendo una economia sviluppata è definita come “innovation driven”, la fuga dei cervelli non aiuta sicuramente l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo (settori in cui già mancano gli investimenti). Di poi (riprendendo i grafici, 4,5,6) quello che colpisce è che alla fuga dei cervelli ed alla incapacità di valorizzare il talento si aggiunge il ricorso ad una gestione professionale che non è il risultato del merito. La valorizzazione del talento ed il ricorso ad una gestione professionale basata sulla capacità e sul merito, però, non sono scelte che competono ai lavoratori, bensì sono scelte delle imprese; quindi si potrebbe tranquillamente dire che una eventuale mancanza di merito e la fuga dei cervelli non sono determinate dai lavoratori ma dalla imprese; e che quindi questi limiti del mercato del lavoro italiano sono determinati appunto dalle imprese stesse, sono dal lato dell’impresa e non del lavoratore; perché è l’impresa che decide chi selezionare (talento o non talento) e chi premiare (merito o non merito).
Pertanto, le pecche che sembrano emergere dal mercato del lavoro italiano e che sono anche ben conosciute e documentate da studi e dati, non sono la mancanza di flessibilità e l’elevato costo dei lavoratori, bensì la poca capacità di utilizzare il capitale umano a disposizione che si traduce nella fuga dei cervelli, nell’incapacità di valorizzare i talenti ed nel ricorso ad una gestione professionale che prescinde dal merito. Questi sono problemi che riguardano il lato delle aziende, perché sono le aziende che selezionano il personale; e se la selezione non tiene conto delle capacità (talento), delle qualifiche e del merito, la colpa non può certamente essere addossata ai lavoratori. Nonostante questo e nonostante sia risaputo che l’Italia sia il paese degli amici, degli amici degli amici, dei raccomandati, dei furbetti, dei ruffiani, ecc. ecc., così nel pubblico come nel privato, e non si rifaccia certamente al merito ed alle capacità, quando si arriva a parlare di mondo del lavoro, piuttosto che valutare i veri limiti dello stesso, considerando i limiti dei lavoratori ma anche quelli della “parte datoriale”, la congiuntura economica globale, ecc. ecc., si preferisce semplificare – si fa una sorta di reductio ad unum del problema che diventa sempre lo stesso, la flessibilità - e scaricare, ancora una volta, la responsabilità unicamente sui lavoratori; e non si considera che determinate scelte penalizzanti – come la mancanza di merito – sono il frutto di una volontà che è nelle facoltà dalla parte datoriale esercitare e non del lavoratore. E se la parte datoriale preferisce non selezionare, per qualsiasi ragione, i talenti, oppure non si rifà ad una gestione professionale che abbia come base la qualifica ed il merito, sarà poi difficile e puramente “ideologico” voler sostenere che i limiti del mercato del lavoro stiano dal lato del lavoratore (troppo costoso) e nella mancanza di flessibilità.
In conclusione, quando si parla di lavoro, considerare i limiti all’efficienza del mercato del lavoro che potrebbero derivare allo stesso dal lato delle imprese (fuga dei cervelli, mancanza merito, ecc. ecc.), piuttosto che solo quelli dal lato del lavoratore (poca flessibilità, alte retribuzioni), potrebbe essere un modo migliore di cominciare a impostare i problemi e di individuare delle soluzioni. Infatti, considerare i “limiti” propri di lavoratori ed imprese dà, per forza di cose, una visione d’insieme con uno spettro maggiore; che può essere il viatico di migliori soluzioni e proposte che non siano le solite che abbiamo sentito ripetere finora e che, prescindendo dai tagli – il vero imprenditore è quello che sa investire non quello che taglia - invece si informino ad un criterio di composizione che tenga conto comunque del fatto che se le imprese possono essere penalizzate da alcune norme di protezione per alcuni lavoratori, anche le imprese stesse (magari quelle di grandi dimensioni soprattutto), quando hanno potuto, non hanno comunque optato per un criterio trasparente che cercasse di valorizzare il talento ed il merito; ed avendo quindi contribuito a creare il loro stesso problema non dovrebbero pretendere ora di metterne la responsabilità tutta a carico dell’altra parte.