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Quali rischi per l’export italiano con l’euro a 1,38 dollari

venerdì 25 ottobre 2013, di Nicola D’Antuono

Si pensa che l’andamento del cambio euro/dollaro sia un affare circoscritto per lo più alle grandi banche d’affari, ai fondi di investimento e ai trader privati. In realtà, i movimenti dell’euro sui mercati internazionali delle valute sono in grado di influenzare sensibilmente anche i bilanci delle aziende di paesi dell’eurozona con un forte orientamento all’export. Le variazioni del cambio dell’euro interessano soprattutto a quelle multinazionali spagnole o italiane che esportano i loro prodotti fuori dall’area euro, non avendo uno sbocco adeguato sul mercato domestico a causa del protrarsi della recessione.

Il super-euro non è un buon affare per le multinazionali italiane che generano gran parte del proprio fatturato all’estero. Questo perché la moneta unica non si è rivalutata molto solo contro il dollaro americano, bensì anche contro yen, yuan, won e altre valute di paesi emergenti. Negli ultimi 12 mesi l’euro ha guadagnato il 6,5% sul dollaro statunitense, il 5,4% sulla sterlina, il 3,7% sullo yuan cinese, il 2,5% sul won sudcoreano e addirittura il 29% sullo yen. Ma non finisce qui. La moneta unica si è rivalutata quasi del 18% sulla rupia indiana, del 14,5% sulla lira turca, del 13,5% sul real brasiliano e del 7% sul rublo russo. Insomma, è super-euro nonostante il forte rallentamento economico e i problemi nelle finanze pubbliche di molti paesi membri.

Secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, per ogni rivalutazione dell’euro del 10% avviene una riduzione di oltre il 3% per le esportazioni nominali. Ciò si traduce in mancate commesse per un controvalore superiore ai 12 miliardi di euro, a causa della minore competitività rispetto ad altre merci o servizi offerti da aziende con monete più deboli. Molte multinazionali italiane avvertono il problema della scarsa competitività e in molti casi sono costrette a rinunciare a parte della marginalità. E’ chiaro, però, che questa situazione non può andare avanti ancora per tanto tempo.

Molte aziende, scoraggiate dal boom dell’euro, stanno ricorrendo alla copertura del rischio di cambio (hedging), che però comporta costi aggiuntivi. Secondo alcune associazioni industriali, se l’euro oltrepassa quota 1,40 per molte piccole aziende c’è il rischio di essere spazzate via dalla competizione nel commercio internazionale. Alcune aziende italiane stanno addirittura chiedendo il pagamento in euro dagli acquirenti esteri. E c’è poi chi, come Diego Rossetti - presidente dell’omonimo gruppo calzaturiero - si preoccupa per la propria sopravvivenza sui mercati internazionali nel caso in cui l’euro dovesse salire a 1,50 dollari.

Il made in Italy può resistere con un euro forte solo in segmenti ad alto valore aggiunto, come i beni di lusso, l’alimentare di qualità o le tecnologie meccaniche. Ciò non si può dire per l’export di scarpe o abbigliamento. E che dire dei mobili di fascia medio-alta che finiscono in gran parte in Russia; dell’impiantistica e delle macchine per l’industria delle costruzioni in India, Brasile, Perù o negli stessi Usa dove la concorrenza di cinesi o coreani appare imbattibile; delle macchine industriali che i giapponesi possono piazzare senza problemi avendo una moneta super-svalutata. Per l’export dell’area euro è notte fonda, con gravi danni alle economie dei paesi più deboli tra le quali figura purtroppo l’Italia.

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