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Cina: stop alla politica del figlio unico per combattere la crisi?

giovedì 5 novembre 2015, di Corrado Salemi

La riduzione del controllo sulle nascite da parte dello Stato è un cambio di rotta epocale sulla politica di pianificazione familiare.
La politica del figlio unico fu introdotta in Cina nel 1979 e fu attuata vietando alle donne di avere più di un figlio, in risposta all’esponenziale crescita della popolazione, impedendo, secondo i dati del governo, 400 milioni di nascite.

Wang Feng, uno dei maggiori esperti cinesi di demografia, non è d’ accordo con il dato sopra indicato e sostiene che la diminuzione del tasso di fertilità è avvenuto in realtà dal 1970 al 1979, quando è sceso dal 5,8 al 2,8% come conseguenza dell’aumento del reddito medio e dell’urbanizzazione.
L’abolizione della legge, secondo Wang, è dunque sostanzialmente inutile.

Negli anni scorsi, la politica del figlio unico è stata gradualmente allentata.
Molte coppie della nuova classe media urbana hanno scelto di avere più di un figlio e di pagare le relative multe, spesso abnormi.

Quali benefici per la Cina con l’abolizione della politica del figlio unico?
Non necessariamente la riforma produrrà i risultati sperati.
L’aumento dell’urbanizzazione, del tenore e del costo della vita (per esempio degli immobili, dell’istruzione primaria e secondaria) hanno portato infatti al calo del tasso di fertilità, avere un figlio costa parecchio. A prescindere dalla legge del figlio unico, al momento i cinesi non hanno molta voglia di ingrandire il nucleo familiare.

Magari la riforma non avrà un grosso riscontro numerico, ma certamente è un riconoscimento dell’inadeguatezza della precedente legge che ha palesemente violato numerosi diritti umani. Inoltre, probabilmente, la decisione è stata presa in ritardo rispetto alle necessità economiche del paese e potrebbe risultare insufficiente per rispondere alla necessità di aumentare la forza lavoro.

Solo per aumentare la forza lavoro?
Oltre all’abolizione della legge sul figlio unico, il governo ha approvato il nuovo piano economico quinquennale per gli anni 2016-2020, che prevede una crescita economica "medio-alta" di circa il 7% all’ anno, con l’obiettivo di raddoppiare entro il 2020 il valore del Prodotto Interno Lordo del 2010.

Queste due decisioni sembrano essere strettamente collegate. L’obiettivo è favorire l’aumento della forza lavoro nella Repubblica Popolare, impegnata in una fase difficile da un punto di vista economico e sociale, come segnalato dal rallentamento del tasso di crescita del PIL e dall’invecchiamento della popolazione.

Più figli significano più forza lavoro e più consumi interni. Il governo vuole rendere la Cina la prima potenza economica mondiale e questo obiettivo non è perseguibile se non si parte da una forza lavoro numerosa.

Un paese vivo è un paese che vede un tasso di natalità in crescita, sintomo della fiducia che le famiglie hanno nel futuro della nazione in cui vivono. Il fatto che in Italia il ricambio generazionale derivi quasi totalmente dalle immigrazioni e il tasso di natalità sia basso (nel 2014 è stato di 8,4 per mille), dovrebbe essere un campanello d’allarme per chi è al potere.

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