Note di Vino

Note di Vino

di Antonella Coppotelli

Il marketing territoriale in Italia oggi tra identità, competenze e borghi da riabitare

Un racconto intimo (ma lucido) sull’evoluzione della promozione dei territori italiani dal 2020 a oggi; l’Italia non è solo Venezia e nozze blasonate.

Il marketing territoriale in Italia oggi tra identità, competenze e borghi da riabitare

In questo articolo non parlerò di vino ma di territorio, quello italiano, che poi dà vita al terroir, culla della nostra splendida varietà ampelografica.

Lascio volutamente da parte il calice per un momento per fare un ragionamento con voi su un altro tema a me molto caro e su cui tutti dovremmo riflettere un po’ e rimboccarci le maniche: la promozione del nostro territorio.

In questi ultimi giorni si è molto parlato tra il serio e il faceto del matrimonio di Jeff Bezos e Lauren Sánchez; non entro nel merito dello specifico evento e delle polemiche suscitate, altri più bravi e accurati di me hanno scritto e detto.

Di certo a cascata ne ha beneficiato anche la location prescelta, ossia la nostra splendida, malinconica e difficile Venezia. I vantaggi della Serenissima non si sono tradotti solo in termini di branding ma anche economici se si pensa a tutto l’indotto generato. E di questo dovremmo esserne tutti contenti, controversie di altra natura a parte, ribadisco.

Ora però mi sorge una domanda spontanea: l’Italia è solo Roma, Venezia, Milano, Firenze e Napoli, tanto per citare alcuni capoluoghi (non me ne vogliano gli altri)? O è qualcosa di più? Mentre i “Signori Amazon” stavano dicendo di sì, ero diretta verso Paestum per partecipare a un altro matrimonio che ovviamente non ha suscitato lo stesso eco mediatico ma che nella sua intimità ha generato un altro importante valore, compreso quello economico.

Come sempre i lunghi e solitari viaggi in macchina mi ispirano pensieri e riflessioni accompagnati dalla mia naturale voglia di scoperta del nuovo che strada e paesaggio spesso soddisfano e gratificano.

Una sorta di viaggio a doppia mandata dentro e fuori di me, circondata dalle bellezze del nostro Paese e dal fascino dei luoghi. I nostri padri antichi lo chiamavano genius loci, lo spirito del territorio, e quando proviamo quella sensazione di benessere è perché siamo entrati subito in una connessione empatica con l’anima del posto che ci accoglie.

Personalmente provo questo immediato senso di benessere e di benvenuto quando varco i confini del Lazio verso Sud; forse mi lascio suggestionare dal fatto che ho un’anima “terrona” e quando c’è la possibilità di visitare e vivere un qualsiasi posto che si trovi a Sud rispetto alla mia posizione del momento, mi rende felice e mi fa partire ben predisposta, ma non è di questo che voglio parlare.

Chilometro dopo chilometro sono tornata indietro nel tempo alla pandemia; sembra trascorsa un’era geologica da cui siamo usciti tutti peggiori, ma in realtà si tratta solo di cinque anni. Che strana sensazione la percezione del tempo e di quello che accade nel frattempo!

Ripensando, però, alla primavera del 2020, ho rivisto un’Italia immobilizzata e silenziosa, totalmente in contrasto con quello che accade oggi: città svuotate, borghi sospesi nel tempo, coste senza turisti. Un silenzio denso, innaturale, non voluto ma necessario. Sì, perché proprio in quella pausa forzata forse è cominciata una nuova narrazione del territorio.

Un racconto più intimo, lento, radicato. È lì che il marketing territoriale ha iniziato, o forse ricominciato, a farsi le domande giuste. E oggi, a un lustro di distanza, il panorama è cambiato. Ma non abbastanza.

Dalla promozione all’identità

Fino al 2020, il marketing territoriale in Italia era spesso sinonimo di “promozione turistica”. Lo scopo era attrarre visitatori, raccontando il lato più spettacolare delle destinazioni: mare, arte, cucina, eventi.

Troppo spesso, però, mancava una visione strategica. Il territorio era ridotto a immagine, a prodotto da vendere. Nel nostro caso “spaghetti, pizza, mandolino” o lasciato nelle mani di una Venere Influencer.

La pandemia ha imposto una riflessione: non bastava più promuovere, bisognava costruire senso. Un territorio è un insieme complesso di valori, relazioni, identità. È cultura viva, memoria collettiva, economia locale. Così il marketing territoriale ha cominciato a cambiare pelle, puntando su parole nuove: comunità, sostenibilità, co-progettazione.

L’Osservatorio Nazionale del Turismo (ENIT, 2023) ha sottolineato come dal 2021 si sia assistito a una forte crescita delle iniziative basate sul “turismo rigenerativo” e sul “turismo di prossimità”, forme che mettono al centro la relazione tra chi arriva e chi resta. Ma per farlo servono competenze e visione da estendere non solo ai capoluoghi di provincia ma a tutto il nostro territorio.

Le competenze necessarie oggi

Il marketing territoriale moderno non è più una questione per soli esperti di comunicazione. Richiede una regia multidisciplinare e trasversale, che metta in dialogo urbanisti, sociologi, economisti, storyteller, esperti di digitale e di sviluppo sostenibile.

Secondo il report “Competenze e Territori” di Fondazione Symbola (2024), i professionisti che operano nel marketing dei territori devono oggi possedere competenze in almeno tre aree chiave che possiamo sintetizzare così:

  • analisi e ascolto del territorio ossia, la capacità di leggere i bisogni della comunità locale, di raccogliere dati qualitativi e quantitativi, di osservare con sguardo critico ed empatico;
  • branding identitario e storytelling autentico con l’obiettivo di saper creare una narrazione coerente e rispettosa, evitando stereotipi, esaltando unicità, coinvolgendo le voci locali;
  • progettazione partecipata e sostenibilità per sviluppare progetti con impatto reale, misurabile, che tengano conto degli equilibri ambientali, economici e sociali.

Serve, inoltre, una competenza ancora poco sviluppata: quella della cura. Saper costruire relazioni nel tempo, mantenere coerenza, proteggere i luoghi dalla sovraesposizione. Il marketing territoriale non è pubblicità. È politica culturale.

I borghi come risorsa (e come sfida)

Pensando e analizzando tutto ciò, i borghi italiani sono i veri protagonisti di questa lunga e disordinata riflessione. Non solo perché rappresentano un patrimonio architettonico e paesaggistico inestimabile (oltre 5.500 secondo l’ISTAT), ma perché incarnano un modello alternativo di vita e sviluppo.

Il progetto “Piccoli Borghi” del PNRR, con un finanziamento complessivo di oltre 1 miliardo di euro, ha dato impulso a numerose iniziative di rigenerazione urbana, attrazione di nuovi residenti, promozione culturale. L’obiettivo era (ed è) rivitalizzare luoghi marginali, facendo leva sulla loro autenticità. Ma la strada è lunga così come è ancora ardua l’interiorizzazione di un certo mindset.

Secondo il Rapporto annuale Legambiente 2024, molte di queste iniziative rischiano di restare episodiche, scollegate, o addirittura controproducenti, se non inserite in un quadro strategico più ampio.

Serve una governance territoriale che sappia tenere insieme progettazione, accessibilità, inclusione e sostenibilità.

Un borgo non si salva con un festival, o con una campagna social ben riuscita. Si salva quando torna a essere un luogo dove si può vivere, lavorare, crescere. E questo richiede infrastrutture, servizi, connessione, lavoro. E soprattutto visione politica.

Le luci e le ombre del post-2020

Da un lato, abbiamo esempi virtuosi. Realtà come Civita di Bagnoregio, Santo Stefano di Sessanio, Pollica o Castel del Giudice sono diventate modelli di marketing territoriale integrato: valorizzazione del patrimonio, coinvolgimento degli abitanti, ospitalità diffusa, imprenditorialità locale.

Anche le reti di comunità, come i cammini (via Francigena, via degli Dei, cammino di San Benedetto), hanno dimostrato che si può fare marketing del territorio con lentezza, autenticità e coesione.

Dall’altro lato, molte aree interne restano escluse da questi processi. La frammentazione amministrativa (l’Italia ha oltre 7.900 comuni) ostacola la programmazione a lungo termine. I fondi europei, spesso, faticano a essere spesi per mancanza di competenze progettuali. E il rischio è che il marketing territoriale torni a essere vetrina, non visione. A questo aggiungiamo anche infrastrutture spesso fatiscenti, trasporti inesistenti e mancanza totale di reti di connessione, virtuali e reali.

Su cosa deve puntare l’Italia ora: il futuro è una questione di cura

L’Italia deve abbandonare definitivamente il modello “usa e getta” per abbracciare una strategia di marketing territoriale fondata su tre parole chiave: radicamento, relazione, rigenerazione. Ma cosa implicano nel dettaglio?

Radicamento significa conoscere profondamente il territorio, le sue storie, le sue contraddizioni. Non basta “valorizzare” i borghi: bisogna viverli, ascoltarli, capirne i limiti e le potenzialità ed essere in grado di trasformare eventuali mancanze in pregi. Per esempio: scarseggia la connessione a internet? Bene, quel borgo può essere eletto di diritto e di natura a luogo ideale per un sano detox digitale offrendo ai propri ospiti la possibilità di rigenerarsi e di riscoprire la bellezza delle relazioni umane.

Relazione vuol dire costruire reti tra pubblico e privato, tra amministrazioni e cittadini, tra territori contigui. Il marketing territoriale ha successo solo se genera fiducia e alleanze e se c’è la volontà di fare squadra da parte di tutti mettendo da parte campanilismi e bandiere politiche di diverse appartenenze. Un’utopia? Forse, ma la speranza è sempre l’ultima a morire e in questo caso diventa una necessità impellente se si vuole dare una svolta significativa alla valorizzazione del nostro territorio.

Rigenerazione implica andare oltre l’estetica e, permettetemi, un certo romanticismo oramai radicato nelle menti dei più che ci parla solo della bellezza malinconica di un posto. Riqualificare significa ridare funzione, dignità, accessibilità ai luoghi. Vuol dire attrarre nuovi abitanti, sostenere imprese locali, investire in formazione. Implica creare un circuito economico virtuoso che consenta a tutti di lavorare e contribuire alla rinascita e mantenimento del proprio posto. Anche qui, in una parola, vuol dire responsabilizzare i partecipanti allo stesso modo, come se fossero tutti soci investitori a parità di quote di un’azienda. Perché, signori miei, il punto è proprio questo: se vogliamo davvero parlare di marketing territoriale applicato concretamente a una realtà abitativa, bisogna avere una mentalità imprenditoriale a cui aggiungere quotidianamente anche tanto lavoro e operatività.

E su tutto questo, il digitale può essere un grande alleato. Non nel senso di creare “esperienze virtuali” scollegate, ma di offrire strumenti per mappare, raccontare, progettare. Piattaforme partecipative, sistemi informativi territoriali, digitalizzazione dei servizi sono oggi essenziali.

Il marketing territoriale, nel 2025, è un lavoro paziente. Non ci sono scorciatoie. Ci sono però direzioni possibili. L’Italia può diventare un modello di riferimento, ma solo se investe sulle competenze, sulla qualità delle relazioni e sulla capacità di fare sistema.

Come scrive il sociologo e poeta Franco Arminio:

I paesi non si salvano con i numeri, ma con l’amore.

E se il marketing territoriale avrà il coraggio di trasformarsi in uno strumento di cura, e non solo di vendita, allora sì, forse anche i borghi torneranno a vivere e noi con loro.

E chissà, forse le prossime nozze blasonate con tutto il conseguente battage di comunicazione e indotto economico saranno celebrate ad Arce o a Baronissi o a Tagliacozzo.

Vogliamo lavorarci insieme per scoprirlo?

Antonella Coppotelli

Responsabile Area Marketing & PR Money.it

Per maggiori informazioni su Note di Vino scrivere un'email a redazione@money.it

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