Residenza elettiva e residenza fiscale, quali sono le differenze
Mauro Finiguerra
9 giugno 2023
La residenza elettiva e la residenza fiscale dei cittadini extra-Ue nel nostro Paese. Interpretazione di norme fiscali, amministrative secondo l’Agenzia delle Entrate.
Affrontiamo un problema che riguarda molti cittadini esteri, extracomunitari, quando decidono di richiedere il visto per l’ingresso nel nostro Paese: la residenza elettiva e il permesso di soggiorno.
Anche a seguito della Brexit, molti cittadini britannici sono rimasti esclusi, come i cittadini russi, ucraini, albanesi e in genere tutti i cittadini extra Ue, dalla possibilità di circolare e soggiornare nei Paesi Ue per periodi superiori a 90 giorni ogni 180 giorni.
Per poter soggiornare in Italia per periodi superiori ai 90 giorni ogni semestre, questi cittadini necessitano di un visto d’ingresso. Il visto di ingresso può essere rilasciato per motivi di lavoro autonomo o lavoro dipendente, cioè per lunga durata (visto D), oppure per residenza elettiva. Il permesso di soggiorno deve essere richiesto entro 8 giorni dall’arrivo in Italia dai cittadini extra Ue dotati di un visto d’ingresso.
Il visto per residenza elettiva
Mentre per gli ingressi consentiti dai visti di lunga durata il tema della residenza fiscale in Italia dei cittadini stranieri entranti pone problemi limitati, perché questi ultimi trasferiscono in Italia la residenza anagrafica o il centro degli interessi economici e famigliari, divenendo soggetti alle norme tributarie domestiche, spesso sono nati equivoci o errate interpretazioni sulle conseguenze derivanti dall’entrata nel nostro Paese per chi vi accede con il visto per residenza elettiva.
Infatti mentre chi entra col visto D deve lavorare in Italia e stabilirvi la propria residenza o il proprio domicilio, nel significato stabilito dall’art. 43 del codice civile e dell’art. 2 co. 2 del Tuir, coloro che invece entrano nel nostro Paese con il visto per residenza elettiva devono dichiarare e dimostrare di avere risorse proprie con le quali mantenersi nel nostro Paese, di volersi stabilire con continuità acquisendo la disponibilità di una abitazione, ma con la proibizione di svolgere qualsiasi tipo di attività lavorativa.
Su questo argomento è intervenuta l’Agenzia delle Entrate con la Risposta a interpello n. 119 del 20 gennaio 2023.
Il caso dell’interpello: residenza elettiva e permesso di soggiorno
Il caso è quello di un cittadino britannico, residente in Svizzera dove dimora abitualmente con la famiglia e ha la sede principale dei propri affari e interessi, possiede in Italia due proprietà immobiliari, nelle quali si reca, con la famiglia, per trascorrervi brevi periodi di vacanza.
Per poter restare in Italia per periodi superiori ai 90 giorni ha richiesto un visto (indicato come “di soggiorno” nel testo dell’interpello) per residenza elettiva, che gli è stato rilasciato con durata di 1 anno.
Il cittadino estero, però, poi precisa di non aver richiesto il permesso di soggiorno in Italia per residenza elettiva e di non essersi iscritto nei registri anagrafici della popolazione residente.
Chiede comunque all’Agenzia Entrate se il solo permesso di soggiorno per residenza elettiva, per la maggior parte del periodo d’imposta, possa essere considerato come presunzione di residenza fiscale ai sensi della legge italiana, ovvero dell’art. 2 co. 2 del Tuir.
Le norme italiane sulla residenza e l’interpretazione del residente elettivo
Per definire la residenza fiscale nel nostro Paese le norme italiane prevedono tre diversi criteri, alternativi, ma che devono sussistere per la maggior parte del periodo d’imposta:
- l’iscrizione anagrafica;
- il domicilio civilistico, inteso (ai sensi dell’art.43, comma 1, codice civile) come il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari o interessi;
- la residenza civilistica, intesa (ai sensi dell’art.43, comma 2, codice civile), come il luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
Il residente elettivo precisa di non essere iscritto all’anagrafe italiana e di risiedere abitualmente in Svizzera, dove lavora e ha la famiglia, dunque non di non possedere in Italia, per la maggior parte del periodo d’imposta, neppure il centro degli affari economici, né quello degli interessi famigliari.
Ritiene dunque che la residenza elettiva non sembra essere una delle condizioni previste dalla norma italiana, per poter rilevare una presunzione di residenza e di conseguenza assoggettato agli obblighi tributari in Italia.
Il parere dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate segnala prima di tutto che non può entrare nella procedura amministrativa e verificare se il soggetto che ottiene un visto per residenza elettiva è obbligato o meno a richiedere, entro un certo tempo, il permesso di soggiorno e a effettuare la conseguente iscrizione all’anagrafe dei residenti.
Tuttavia conferma che ottenere un visto per residenza elettiva non può essere considerato equivalente all’iscrizione anagrafica prevista dal Tuir.
In ogni caso l’Ufficio fa presente che l’aver ottenuto solo il visto per la residenza elettiva senza permesso di soggiorno e senza iscrizione all’anagrafe, non può escludere una residenza fiscale in Italia.
Quello che conta infatti è se il residente elettivo in Italia trasferisce il domicilio, ovvero il centro degli affari economici, cioè il luogo dove si guadagna da vivere o la residenza, cioè il centro degli affari familiari, insomma il posto dove va a dormire e tiene il pigiama e lo spazzolino.
Ma a questo punto l’Agenzia Entrate non si ferma e introduce importanti informazioni per i residenti elettivi, infatti precisa che, secondo le disposizioni del Ministero Affari Esteri il residente elettivo straniero deve dimostrare di potersi mantenere autonomamente compresa l’assistenza sanitaria, senza esercitare alcuna attività lavorativa, dando garanzie sia sulle proprie risorse economiche che sul fatto di avere una abitazione principale da adibire a residenza.
Rileva ancora che, per autorizzare l’ingresso di stranieri per residenza elettiva, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che, siccome si tratta pur sempre di residenza, lo straniero deve dimostrare di volersi effettivamente stabilire in Italia con continuità e che nel caso in cui è mancata la dimostrazione di tale reale intenzione, il visto d’ingresso è stato negato, perché il riferimento è sempre quello della residenza effettiva, cioè quella determinata, oggettivamente, dalla permanenza in un luogo e, soggettivamente, dall’intenzione di abitarvi stabilmente.
Non conta la tipologia di residenza ma le intenzioni
Dalla lettura del parere dell’Agenzia Entrate emerge sostanzialmente quello che già era noto agli addetti ai lavori. Al di là della procedura visto-permesso- iscrizione anagrafica, che in genere è tipica di tutte le residenze elettive, tranne forse quella esposta dal cittadino britannico, ciò che conta ai fini della rilevazione di una residenza fiscale italiana non è tanto la tipologia di residenza richiesta, quanto l’intenzione del cittadino straniero di trasferire nel nostro Paese il centro dei propri affari personali e familiari.
Mandare i figli a scuola in Italia, adottare l’”italian lifestyle”, abitare in un piccolo centro a misura d’uomo, accedere alla sanità italiana, sono tutti elementi che denotano l’intenzione di creare un collegamento con il territorio, tale da configurare la residenza fiscale in Italia.
D’altra parte se il residente elettivo non manifesta quell’intenzione, né intende trasferire la propria residenza, non solo per la maggior parte del periodo d’imposta, ma anche per una continuità più duratura, secondo l’Agenzia Entrate non dimostrerebbe quei requisiti fondamentali per il rilascio del visto per mancanza di interesse a conseguire un trasferimento effettivo sul territorio nazionale.
Insomma a seguito di questo interpello, per il cittadino estero, resta il dubbio, da una parte, di essere considerato comunque residente fiscale in Italia e, dall’altra, di ritenere valido il proprio visto per residenza elettiva, considerato che le sue affermazioni, di non aver richiesto il permesso di soggiorno e di non essersi iscritto all’anagrafe, sono certamente segnali di disinteresse a dare continuità al trasferimento richiesto.
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