Perché la finanza privata, da sola, non può sostenere la finanza sostenibile
Giuseppe Montalbano
15 ottobre 2020
Le iniziative UE per la transizione ecologica puntano sul ruolo dei mercati finanziari, sottovalutandone i limiti e rischi.
Con il Green Deal lanciato lo scorso gennaio l’Unione europea si è posta l’ambizioso traguardo di diventare la prima economia a impatto zero sul cambiamento climatico entro il 2050, assumendo una leadership globale nelle politiche per la riconversione ecologica, secondo gli obiettivi sanciti dall’accordo di Parigi del 2015.
L’asse portante dell’agenda verde europea è costituito dal piano d’azione per finanziare la crescita sostenibile, pubblicato nel marzo 2018, con cui sono state fissate le iniziative fondamentali per avviare la transizione del modello di sviluppo del Continente verso la neutralità climatica. In tale quadro, i mercati finanziari e i suoi attori sono stati chiamati giocare un ruolo cruciale.
Il ruolo della finanza privata nella finanza sostenibile
L’obiettivo di fondo del piano per finanziare la crescita sostenibile è infatti quello di “riorientare i flussi di capitali verso un’economia più sostenibile”, predisponendo condizioni e incentivi per incanalare investimenti verso attività senza ricadute negative per il clima e la preservazione degli ecosistemi naturali.
Protagonisti della finanza sostenibile nell’approccio europeo sono quindi le banche, società e fondi di investimento operanti all’interno del mercato comune, le cui scelte e valutazioni devono tenere conto dei fattori legati alla sostenibilità ambientale.
L’assunto alla base di tale meccanismo è che la finanza privata possa e debba fornire il grosso delle risorse necessarie per la transizione ecologica delle economie europee.
L’intervento del legislatore deve garantire innanzitutto le premesse essenziali per un corretto funzionamento del mercato della finanza sostenibile, mentre gli investimenti pubblici attraverso il bilancio comunitario e la banca europea per gli investimenti possono svolgere un ruolo complementare, in base ai vincoli istituzionali e alla mancata integrazione fiscale dell’UE. Secondo le stime della Commissione, le risorse richieste sono dell’ordine dei 360-410 miliardi di euro all’anno fino al 2030.
Le misure finora adottate e in corso di implementazione a livello europeo rispondono a questa esigenza. Così il nuovo regolamento sulla trasparenza relativa alla sostenibilità impone a banche e società finanziarie di garantire agli investitori informazioni dettagliate rispetto a rischi legati ai criteri ambientali, sociali e di governance (ESG). La trasparenza sull’impatto ecologico e sociale degli investimenti poggerà sulla tassonomia europea: ad oggi il prodotto più notevole dello sforzo normativo europeo che stabilisce per la prima volta uno standard per la definizione e classificazione delle attività economiche in base alla loro sostenibilità. Al momento tale tassonomia servirà come metro per gli operatori di mercato, cui spetterà il compito di valutare se e in quale misura gli investimenti proposti rientreranno nei parametri delle attività sostenibili, in assenza di un organismo pubblico in grado di validarne il giudizio.
Infine, la terza principale iniziativa UE consiste nella creazione di un “green bond”, cioè di un marchio che definisca una classe di titoli di debito con cui finanziare attività sostenibili, cui gli investitori potranno aderire su base volontaria.
In tutti e tre i casi la ratio è la stessa: fornire agli investitori e società di gestione dei patrimoni informazioni, criteri e prodotti in grado di stimolare investimenti in attività sostenibili. La scommessa dei decisori europei è che i mercati finanziari, se adeguatamente attrezzati e incentivati, possano essere il motore per la transizione a un modello di sviluppo sostenibile.
Ma fino a che punto la finanza privata può sostenere, da sola o per la gran parte, un simile riorientamento delle economie nazionali per un modello alternativo ed ecosostenibile?
3 motivi per cui la finanza privata è inadatta agli obiettivi di sostenibili
A ben vedere, la finanza privata porta con sé dei limiti strutturali alla transizione ecologica, legati alle sue dinamiche di funzionamento. Alla base dei mercati finanziari vi è infatti la necessità, da parte dell’investitore, di assicurare un rendimento sul capitale investito tenendo conto del rischio incorso, mentre da parte del debitore è fondamentale garantirsi un flusso stabile di entrate per il ripagamento dei debiti e dei relativi interessi.
Gli obiettivi legati alla sostenibilità ambientale non possono essere in sé il fine degli operatori di mercato: al contrario, i primi possono diventare investimenti solo nella misura in cui siano in grado di assicurare redditività. Che l’imperativo del profitto alla base delle economie capitalistiche possa essere compatibile con la tipologia e i temi delle attività in grado di preservare l’ecosistema appare un assunto non poco problematico.
Questo almeno per tre ragioni.
In primo luogo, nella sua forma più generale, la conservazione o ripristino di un ecosistema non è detto che debba o possa generare valore per l’investitore privato. Di contro, appunto, gli investimenti da parte degli attori di mercato sono guidati dall’esigenza di “monetizzare” la tutela dell’ambiente. Il nodo alla base della finanza (privata) sostenibile è questo: in che misura i processi che consentono la preservazione e sostenibilità degli ecosistemi naturali possono garantire livelli di reddito tali da attrarre capitali?
Secondo un recente studio di Finance Watch la capacità di progetti per la conservazione e ripristino degli ecosistemi hanno scarsa possibilità di generare utili adeguati a remunerare i capitali (per approfondire: Nature’s Return, pp. 23-25). Di contro, il settore dei processi “sostenibili” nell’industria tessile, nell’agro-alimentare, nelle costruzioni e nell’industria estrattiva, sebbene in sé in grado potenzialmente di attirare investimenti, presenta ancora mercati poco sviluppati, costi elevati e opportunità di rendimento scarse rispetto a investimenti in settori più remunerativi (e inquinanti).
Altra questione fondamentale riguarda l’orientamento a “breve termine” dei mercati dei capitali, che hanno bisogno per funzionare di elevata liquidità nel sistema e possibilità di finanziamento su scale temporali ridotte, contro il carattere “a lungo termine” degli investimenti necessari alla transizione ecologica. La valutazione degli attivi basata sul principio della valutazione in base ai prezzi di mercati fa sì che gli asset manager siano disincentivati ad acquisire prospettive di lungo periodo, essendo la loro valutazione dei rischi legata ad indici aggregati di mercato in continua evoluzione e che lasciano poso spazio a considerazioni qualitative. L’orizzonte delle attività ecosostenibili e dei rischi ambientali annessi appare quindi disallineata rispetto alle prospettive a breve o brevissimo termine delle società di gestione degli investimenti.
Infine, i criteri ESG mirano appunto a valutare l’impatto del rischio di sostenibilità per l’investimento, il che non è detto coincida necessariamente con l’impatto dell’investimento sull’ambiente o la società. Di per sé questi criteri non garantiscono quindi un impatto positivo per la transizione ecologica. Allo stesso tempo la trasparenza sui criteri ESG è affidata alle singole aziende, in assenza di meccanismi di controllo terzi sulla valutazione della sostenibilità delle attività.
I limiti della finanza privata
In breve, il funzionamento della finanza privata e dei mercati dei capitali pongono barriere strutturali al loro contributo per una transizione ecologica. Per una finanza in grado di sostenere la crescita sostenibile, risulta necessario innanzitutto che la finanza privata sia di per sé “sostenibile” per la società. Se negli anni successivi alla crisi i regolatori europei hanno attuato misure che hanno in parte reso più solido il sistema bancario europeo, alcuni tasselli fondamentali del processo di riforma della finanza sono andati perduti, mentre dal 2015 in poi il progetto di “Unione dei mercati dei capitali” ha rimesso al centro dell’agenda politica lo sviluppo ed espansione dei mercati finanziari nell’UE.
Le banche europee continuano a essere pienamente integrate e dipendenti dai mercati finanziari, anche per via della mancata riforma europea di separazione delle attività di deposito e prestito da quelle di investimento e trading. I colossi bancari “troppo grandi per fallire” sono rimasti al loro posto e, al contrario, il processo di concentrazione del sistema bancario è accelerato, portando allo sviluppo di giganti finanziari che espongono il sistema al rischio sistemico.
Allo stesso tempo, parallelamente all’agenda per la finanza sostenibile, e a sostegno di questa, l’UE è tornata a promuovere attivamente la finanzia strutturata e complessa, con l’ottica di ridare centralità allo sviluppo dei mercati delle cartolarizzazioni e delle tecnologie finanziarie, promuovendo l’inclusione e indebitamento dei piccoli risparmiatori e PMI sui mercati dei capitali.
Un’espansione dei mercati finanziari, di cui l’agenda per la finanzia sostenibile rappresenta il capitolo “verde”, che porta con sé limiti di base allo sviluppo di modelli economici alternativi e sostenibili, rimettendo al centro la questione della sostenibilità stessa della finanza e dei suoi rischi per il futuro delle economie europee.
Per questo un’agenda finanza sostenibile non può fondarsi solo e principalmente sui mercati finanziari e i suoi attori, ma deve contemplare e riproporre la centralità della finanza pubblica, unitamente alle condizioni necessarie per ampliare gli investimenti pubblici indirizzati alla transizione ecologica.
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