Note di Vino

Note di Vino

di Antonella Coppotelli

15% di dazi e il bicchiere di vino resta mezzo vuoto (ma può essere un’opportunità)

Antonella Coppotelli

30 luglio 2025

Il vino italiano sarà risucchiato dai dazi americani. È un disastro, ma se puntassimo sul marketing territoriale per uscire dalla crisi? Breve riflessione per riavere il bicchiere mezzo pieno.

15% di dazi e il bicchiere di vino resta mezzo vuoto (ma può essere un'opportunità)

Mentre Trump si godeva il golf nella sua tenuta in Scozia e la vittoria sull’Europa per l’accordo del secolo (e vorrei ben vedere, aggiungo), l’Europa, rappresentata dalla signora Ursula von der Leyer, ha sancito la nostra sottomissione economica (e non solo) agli Stati Uniti.

Dal primo agosto le esportazioni di una serie di beni “godranno” solo del 15% di dazi verso il paese a stelle e a strisce invece del minacciato 30%. In teoria, un trionfo di trattativa della serie Vanna Marchi “scansati proprio”, come direbbero i giovani.

Un disastro vero e proprio nella pratica che coinvolge seriamente tanti settori merceologici tra cui anche quello enologico. Con buona pace dell’eccellenza Made in Italy che, giorno dopo giorno, rischia di restare solo una bella favoletta da raccontare ai posteri.

Le rimostranze da parte delle associazioni di categoria sono immediatamente arrivate dal momento che a rischio c’è il 76% delle bottiglie italiane (l’equivalente di 366 milioni di pezzi) Una percentuale enorme se paragonata ai cugini francesi e spagnoli.

E’ quanto ha dichiarato Lamberto Frescobladi, Presidente dell’UIV (Unione Italiana Vini) che ha aggiunto:

Con i dazi al 15% il bicchiere rimarrà mezzo vuoto per almeno l’80% del vino italiano.

Alle sue parole che in parte hanno ispirato il titolo di questo pezzo, si affiancano quelle di Paolo Castelletti, Segretario Generale dell’UIV, associazione che raggruppa e tutela sotto di sé oltre 800 aziende del settore vitinvinicolo, il quale rincara asserendo:

Un dazio al 15% è certamente inferiore all’ipotesi del 30%, ma è altrettanto vero che questa tariffa è enormemente superiore a quella, quasi nulla, del pre-dazio. Rispetto ai competitor europei, l’Italia rischia inoltre di subire un impatto maggiore, da una parte per la maggiore esposizione netta sul mercato statunitense, pari al 24% del valore totale dell’export contro il 20% della Francia e l’11% della Spagna; dall’altra per la tipologia dei prodotti del Belpaese che concentrano la propria forza sul rapporto qualità prezzo, con l’80% del prodotto che si concentra nelle fasce “popular” - quindi a un prezzo franco cantina di 4,2 euro al litro – e con solo il 2% delle bottiglie tricolori collocato in fascia superpremium.

Secondo i dati dell’Osservatorio UIV, nel 2023 l’Italia ha esportato oltre 1,8 miliardi di euro di vino negli USA, pari al 23% del totale dell’export vinicolo.

Colpire questo asse strategico significa rischiare di compromettere non solo il fatturato, ma anche la tenuta occupazionale di intere filiere, soprattutto nelle regioni vitivinicole del Nord e del Centro Italia.

Chi rischia di più: Prosecco, Pinot Grigio, Brunello di Montalcino e i rossi di fascia media

Il nuovo scenario dei dazi al 15% colpisce in particolare quei vini che hanno costruito un proprio assetto economico e di comunicazione al di fuori dei confini nostrani. Non parliamo solo di eccellenze come il Brunello di Montalcino, uno dei brand di alto rango più iconici del Made in Italy.

Ci riferiamo anche a bottiglie con altre fasce di prezzo come evidenziato dal segretario Castelletti. Primo fra tutti il Prosecco, che da solo vale oltre 500 milioni di euro di export verso gli Stati Uniti. A seguire, tra i più esposti troviamo il Pinot Grigio delle Venezie, il Chianti, il Montepulciano d’Abruzzo, vini che hanno saputo conquistare il mercato americano grazie a un’identità riconoscibile e a una politica di prezzi accessibile anche alla classe media.

Con l’introduzione dei dazi, questi prodotti rischiano di diventare meno competitivi rispetto ai vini di altri paesi esportatori extraeuropei come il Cile o l’Australia, che godono attualmente di accordi commerciali più favorevoli con gli Stati Uniti. E non si tratta solo di numeri, ma di un intero posizionamento strategico da rivedere, in un momento già complesso per i consumi mondiali di vino.

Un’eccellenza da tutelare: il Made in Italy è lavoro ed economia

I dazi americani però non sono solo una questione di export. L’industria del vino in Italia, una delle tante portabandiere del Made in Italy, conta circa 300.000 aziende, genera oltre 14 miliardi di euro di fatturato annuo e dà lavoro, direttamente e indirettamente, a più di 1,3 milioni di persone. È un ecosistema delicato che tiene insieme agricoltura, trasformazione, logistica, comunicazione, enoturismo.

Questa gabella permanente metterebbe in crisi soprattutto le PMI, che rappresentano la spina dorsale della viticoltura italiana (e più in generale del nostro tessuto imprenditoriale) che non hanno la forza finanziaria per sostenere un calo di competitività su mercati cruciali come quello americano.

Voglio, però, con voi tentare di fare un ragionamento diverso e non restare ancorata alla mera disperazione o al catastrofismo più sterile ma uscire da una miope preoccupazione per cercare di innescare una discussione costruttiva.

Lasciatemi tentare, la rabbia e la passione sono strasbordanti e non posso pensare che ci arrendiamo così. Come spesso accade, la crisi può diventare anche un’opportunità e, forse, è qui che il bicchiere può essere visto mezzo pieno.

Prossimità e identità: il valore della riscoperta locale

Guardiamo al problema e alla sua possibile soluzione da un’altra prospettiva a patto, però, di rimboccarci seriamente le maniche. Un vecchio proverbio recitava “se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna”. Che c’entra direte voi? Calza, invece, perché in un momento di difficoltà come questo, dovrebbe essere il nostro proverbiale ingegno e senso di proattività a guidarci nelle nebbie del presente e futuro.

Se il mercato americano è diventato complicato e poco profittevole, facciamo un passo indietro e guardiamoci in casa puntando al consumo di prossimità, che davvero può essere riscoperto come un vero valore.

Non solo per ragioni logistiche o ambientali, ma anche culturali. I consumatori italiani, e in misura crescente anche quelli europei, stanno riscoprendo il piacere di acquistare e degustare prodotti del territorio. Sicuramente non compenserà le perdite, ma può aiutare ad arginarle.

Secondo l’ultima indagine Nomisma Wine Monitor del 2024, il 47% dei consumatori italiani ha dichiarato di preferire vini della propria regione di residenza, mentre il 63% degli intervistati ha dichiarato di scegliere in base all’origine territoriale e alla tracciabilità.

Questo non è solo un dato sociologico, ma un segnale di cambiamento che deve essere intercettato anche dal marketing del vino (e non solo).

Marketing territoriale: la nuova sfida per l’enogastronomia (e non solo) italiana

E torniamo, quindi, a parlare di marketing territoriale come reale leva economica. In risposta alla crisi internazionale, le istituzioni e i produttori potrebbero (e dovrebbero) investire con decisione su strategie di marketing territoriale.

Raccontare il vino non più come semplice prodotto da scaffale, ma come parte di un ecosistema culturale e ambientale. Un bicchiere di Verdicchio, per esempio, non è solo un bianco marchigiano: è paesaggio, storia, turismo, gastronomia.

Se il vino è uno dei cardini dell’identità italiana, lo è ancor di più quando viene abbinato al cibo e al territorio. L’enogastronomia muove ogni anno milioni di turisti. Secondo i dati ENIT 2023, il 30% dei visitatori stranieri sceglie l’Italia per vivere un’esperienza legata al cibo e al vino.

E le aree rurali, se ben raccontate, diventano mete appetibili al pari delle grandi città d’arte. Pensiamo se a questo abbinassimo anche una seria rinascita dei borghi e dei piccoli comuni.

Non voglio farla facile, per carità. Sono perfettamente consapevole di quanto lavoro ci sia da fare e di quanto sia necessaria una visione politica seria ma per reagire all’ombra dei dazi non basta difendere l’export.

Serve investire su reti locali di distribuzione, sul turismo esperienziale, sulla formazione degli operatori e su strategie digitali capaci di avvicinare il produttore al consumatore.

Proprio quei piccoli produttori che rischiano di più sul fronte internazionale, possono trovare nella prossimità una nuova linfa.

Un futuro da costruire: più resilienza e più orgoglio per un bicchiere mezzo pieno

Il 15% di dazi fa paura, ma può anche essere un’occasione per rafforzare la nostra filiera. Più resilienza, più identità, più vicinanza al consumatore.

È il momento di riconsiderare il modello industriale e commerciale su cui si è retta l’enologia italiana negli ultimi vent’anni. Il futuro del vino non sta solo nell’export, ma nella relazione profonda con il proprio territorio.

Con un patrimonio di oltre 500 denominazioni, altrettanti vitigni autoctoni e un know-how produttivo tra i più avanzati al mondo, l’Italia non può permettersi di subire passivamente.

Serve una risposta compatta da parte delle istituzioni a tutela dei consorzi e delle imprese che, dal canto loro, devono metterci del proprio; in gioco non c’è solo il fatturato, ma l’anima produttiva del nostro Paese.

La partita, quindi, è tutt’altro che chiusa. Il comparto del vino italiano deve guardare avanti. Non solo difendersi, ma rilanciarsi, riscoprendo il valore del vicino, della piccola produzione, dell’identità regionale.

Trasformare una minaccia globale in un’opportunità locale.

E allora sì, il 15% di dazi può anche far tremare i polsi, ma se sapremo cogliere la lezione, il nostro bicchiere, culturalmente, economicamente e simbolicamente, sarà ancora mezzo pieno.

E pronto per essere riempito di nuovo, con un vino che sappia raccontare il Made in Italy al mondo. Anche partendo da casa e, magari, guardando con più concretezza verso Oriente.

Antonella Coppotelli

Responsabile Area Marketing & PR Money.it

Per maggiori informazioni su Note di Vino scrivere un'email a [email protected]

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