Fausta Pavesio e l’innovazione che investe nelle persone prima che nelle startup
Jacopo Paoletti
27 maggio 2025
Intervista a Fausta Pavesio: dal ruolo delle donne nel venture capital all’importanza di investimenti pazienti e impatto sociale.

Fausta Pavesio è una delle figure più influenti e rispettate nell’ecosistema italiano ed europeo dell’innovazione e del venture capital. Con una carriera che abbraccia quasi cinque decenni, ha saputo coniugare una profonda competenza tecnologica con una visione strategica acuta, diventando un punto di riferimento per startup, investitori e istituzioni.
Laureata in Scienze dell’Informazione all’Università di Torino nel 1977, in un’epoca in cui poche donne intraprendevano studi in ambito tecnologico, Pavesio ha iniziato la sua carriera in Fiat Auto, per poi proseguire in Olivetti (ha lavorato con Pier Giorgio Perotto, padre della P101, il primo personal computer della storia) dove ha contribuito allo sviluppo di progetti pionieristici nel campo della formazione professionale.
Negli anni ’90 si è trasferita negli Stati Uniti, vivendo in prima persona l’esplosione di Internet e acquisendo un’esperienza internazionale che avrebbe arricchito il suo approccio all’innovazione.
Tornata in Italia, ha lavorato come consulente per aziende come MIDA (acquisita poi da Ernst&Young) e Value Partners, specializzandosi in strategie di sviluppo organizzativo e tecnologico. Dal 2012 è attiva come angel investor, con oltre venti investimenti personali e numerosi altri attraverso veicoli come Startup Wise Guys. È stata riconosciuta come Business Angel dell’anno da IBAN nel 2015 e Best Women Business Angel da EBAN nel 2018. Nel 2018 e 2019, EU-Startups l’ha inserita tra le 50 donne più influenti nel settore startup e venture capital in Europa. Nel 2018 è stata anche nominata tra le prime 50 Inspiring50 italiane.
Attualmente si divide tra Milano e Stoccolma, dove continua a supportare giovani imprenditori e a partecipare a iniziative di investimento angel in syndicate con gruppi come Nordic Angels e Raspberry. La sua passione per l’innovazione è accompagnata da un impegno costante per promuovere la diversità e l’inclusione nel mondo imprenditoriale, incoraggiando soprattutto le donne a intraprendere percorsi nell’innovazione e nel venture capital. In questa intervista esclusiva, Fausta Pavesio condivide la sua visione sull’evoluzione dell’ecosistema startup, le sfide del venture capital e l’importanza di un approccio etico e inclusivo all’innovazione.
D: Hai visto l’innovazione nascere due volte: negli anni di Olivetti e nella Silicon Valley degli albori. Adesso che tutti parlano di AI e Web3 come “rivoluzioni”, ti chiedo: cosa distingue una vera rivoluzione da una moda che si racconta bene?
R: Veramente sono stata in South Carolina, non precisamente la Silicon Valley, ma ero vicina a The Triangle (Chapel Hill, Raleigh, Durham), e comunque tutti gli USA erano già all’epoca una fucina di innovazione. Se dovessi elencare le caratteristiche che distinguono una vera rivoluzione, direi:
- mirano a risolvere problemi fondamentali: le vere rivoluzioni partono da problemi reali e profondi. Olivetti creò la Programma 101 (primo personal computer) quando gli elaboratori erano enormi e inaccessibili;
- creano nuovi paradigmi, non solo miglioramenti incrementali, quella che io di solito chiamo innovazione vera: Internet non era semplicemente un telefono più efficiente, ma un nuovo paradigma di comunicazione. La Olivetti non faceva solo computer migliori, ma immaginava un nuovo rapporto tra uomo e tecnologia;
- maturano lentamente: tutti parlano di AI ora, ma nei tardi anni 90 lavoravamo già con i Sistemi Esperti, che di fatto possiamo considerare i capostipiti dell’AI.
Al contrario le mode tecnologiche mettono l’enfasi sul marketing più che sulla sostanza, sono quasi soluzioni in cerca di problemi. E poi l’innovazione vera vuol dire cambiamento culturale.
D: Hai lavorato con i grandi nomi del capitalismo industriale e oggi guidi investimenti in startup early-stage. Ma se potessi, davvero, costruire un ponte tra l’industria del ‘900 e il venture capital del futuro, cosa prenderesti da ciascuno? E cosa lasceresti volentieri?
R: Del ‘900 prenderei la capacità da parte delle imprese di capire l’importanza delle filiere, di controllare l’intera catena del valore. E poi le grandi imprese di allora si assumevano la responsabilità non solo di favorire ma anche e soprattutto di guidare il cambiamento e lo sviluppo culturale. Da dipendente di Fiat prima e di Olivetti poi ho partecipato a percorsi formativi che sono inimmaginabili ai giorni nostri: quelle imprese investivano davvero sui talenti. Detto questo le strutture piramidali e verticistiche di allora sono abbastanza incompatibili con l’innovazione diffusa. E l’attenzione all’ambiente era inesistente.
Del VC prendo la possibilità di sostenere e finanziare idee da qualcuno considerate pazze. Ma non bisogna dimenticare l’impatto reale, e quindi non bisogna trasformare i progetti imprenditoriali in asset finanziari e basta. Occorre finalizzare un modello in cui il capitale sia paziente ma esigente, dove la tecnologia sia al servizio dell’uomo e non viceversa, e dove il successo sia misurato non solo in termini di ritorno finanziario ma anche di impatto positivo sulla società.
D: In un tuo recente post hai criticato i “modelli finti democratici” di investimento: club esclusivi che promettono accessibilità. Qual è il pericolo più sottovalutato di questo tipo di narrazione non solo per gli investitori, ma per la società?
R: Credo che il vero pericolo sia l’illusione di partecipazione. Questi modelli si appropriano del linguaggio dei movimenti per l’equità sociale ed economica, svuotandolo del suo potenziale di trasformazione. Termini come ’democratizzazione’, ’accessibilità’ e ’inclusione’ vengono usati per servire logiche di mercato. Sono a mio parere meccanismi che cercano di essere percepiti come al servizio della collettività ma servono principalmente a generare rendite per gli insider.
C’è una startup a cui hai detto no e che poi è esplosa. E ce n’è una a cui hai detto sì ma che ti ha delusa. Ma al netto dei risultati economici, qual è stato l’investimento che ti ha insegnato di più su di te, non sul mercato?
Penso che tutti gli investimenti mi abbiano in generale insegnato molto, ognuno dal suo punto di vista. Ho imparato che posso essere paziente, che mi devo fidare delle mie sensazioni di pelle sulle relazioni anche se qualcuno cerca di convincermi del contrario, che ogni situazione, per quanto critica, si può risolvere con lo studio, la discussione e la mediazione.
D: Sei una delle pochissime donne europee ad aver ricevuto premi da EBAN, InspiringFifty e altri enti internazionali. Ma che effetto ti fa essere celebrata come “eccezione”? Hai mai avuto la tentazione di rifiutare un’etichetta, anche quella di “role model”?
R: Non è facile, anche perché cercare di essere ambassador per il mondo femminile fa sì che io mi senta di rappresentare, anche se non ufficialmente, una categoria intera. Forse l’ha già detto qualche mia collega, ma ogni intervento non appartiene solo a me, rischia di diventare ’prova’ di come le donne agiscono in questo settore. È una pressione invisibile ma costante che raramente i colleghi uomini devono affrontare.
In particolare poi, l’etichetta di ’role model’ porta con sé aspettative di perfezione che trovo irrealistiche e controproducenti. Ricordo una premiazione in cui mi sono trovata divisa tra la gratitudine e il desiderio di contestare l’evento. Non ho mai rifiutato un premio, ma ci sono andata vicina, in fondo sono una rivoluzionaria di natura: dobbiamo cambiare le regole del gioco, non celebrare modelli ed eccezioni.
D: L’Italia ama raccontarsi come un paese creativo, ma quando parliamo di innovazione reale sembriamo sempre un passo indietro. È solo un problema di sistema o anche di mentalità? E se potessi fare “reset”, da dove ripartiresti?
R: È entrambe le cose: sistema e mentalità si alimentano a vicenda, e in Italia si è creata una simbiosi perfetta tra burocrazia che frena e cultura che giustifica il freno. Raccontiamo l’innovazione come estro individuale, molto spesso contro il sistema, ma non siamo capaci di costruire un sistema che renda sistemica l’innovazione. L’Università, nonostante gli sforzi, continua a essere separata dalle imprese, ci sono scarsi incentivi alla sperimentazione, la finanza non è paziente ma focalizzata sul breve termine.
C’è una diffidenza profonda verso ciò che cambia le regole: l’innovazione viene tollerata solo se non disturba. E l’innovazione vera quella che rompe, disintermedia, ridistribuisce potere, disturba sempre. Ci piace il talento fuori norma, il racconto romantico dell’eccezione. Ma l’innovazione vera è fatta di metodo, team e soprattutto investimenti costanti e pazienti. E lì ci perdiamo: non siamo culturalmente allenati a vedere valore nel processo, solo nel colpo di genio.
Per il “reset” comincerei da una trasformazione completa del sistema di education, a partire dalla scuola primaria, mettendo al centro lo sviluppo del pensiero critico e del problem solving.
D: Una delle cose più forti che hai detto di recente è che “parlarsi addosso” tra donne non basta. Allora ti chiedo: cosa serve, oggi, per passare dall’inclusione simbolica a quella strutturale, soprattutto nel venture capital?
R: Occorre trovare uomini intelligenti che sappiano valorizzare la diversità (in questo caso di genere) e capire che una vista “diversa”, complementare o contraria che sia, non può far altro che arricchire le competenze e le capacità di un gruppo
D: Se domani ti dessero un miliardo di euro da investire, con un solo vincolo: sostenere idee rischiose, radicali, imperfette — quelle che oggi nessuno tocca. Dove andresti a cercarle? E su chi punteresti per costruirle?
R: Domanda interessante. Se avessi un miliardo di euro per sostenere idee rischiose, radicali e imperfette, cercherei dove il sistema fallisce e le persone resistono comunque. Le cercherei nelle periferie culturali, non solo quelle fisico-geografiche, anche quelle mentali. E le cercherei nelle comunità di accoglienza e di ascolto. Sono attivista in Refugees Welcome, associazione che sostiene i migranti, e non sai quale miniera di idee queste persone e queste associazioni possano essere.
Bisogna cercare idee e soluzioni nate per necessità, non per business plan. E le cercherei anche tra le seconde generazioni degli immigrati, che navigano naturalmente tra culture diverse e vedono opportunità nei gap culturali. Finanziare iniziative nate in questi ambienti mi darebbe la soddisfazione di investire sull’innovazione vera permettendo allo stesso tempo a persone partite in svantaggio di recuperare velocemente posizioni. Sarebbe bello no? Quando mi dai il miliardo?
D: Nella tua carriera hai attraversato l’era della carta, del codice e dell’algoritmo. Ma cosa ti fa ancora emozionare, oggi, quando ti siedi a parlare con un founder? Cos’è che ti fa dire: “Sì, questo è il motivo per cui faccio ancora tutto questo”?
R: Io non ho praticamente mai investito in idee, ho investito in persone (ovviamente con una idea) che mi guardavano negli occhi e cercavano non di convincermi ad investire ma di coinvolgermi in una missione. Non ho mai investito in un business plan (inutile a super early stage) e men che meno in una idea “disruptive” (ho scritto da qualche parte che non ne posso più di sentire questa parola). Ho fatto tantissimi errori.
Ma mi piace essere considerata dai founder una persona che ti può dare una vista schietta e, tutto sommato, disinteressata anche e soprattutto se non investirà. E che ti darà comunque ascolto, consiglio ed indirizzo. In questi giorni qui a Stoccolma c’è stata la prima edizione svedese di SMAU RestartUP e qualche sguardo interessante l’ho visto .
D: Se un giorno decidessi di sparire da LinkedIn, dai board e dagli eventi, e lasciassi tutto senza clamore, cosa vorresti che restasse di te come persona, come investitrice, come testimone di un tempo che cambia?
R: Di base lo sto già facendo. Ogni tanto penso “non sono proprio nessuno” soprattutto quando leggo di colleghe o colleghi con titoli risonanti o risultati imponenti. Ma poi penso a tutte le vite che ho toccato e in qualche modo, anche di poco, migliorato. Io lo chiamo l’”impatto silenzioso”. E forse ci scriverò un libro.

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