Il punto di vista della GenZ sulla politica

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di Paolo Di Falco

Perché le carceri italiane ignorano la rieducazione? Una riflessione sui fatti di Santa Maria Capua Vetere

Paolo Di Falco

30 giugno 2021

Perché le carceri italiane ignorano la rieducazione? Una riflessione sui fatti di Santa Maria Capua Vetere

Quello che è accaduto nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, dovrebbe farci riflettere sulla dimenticata rieducazione dei detenuti nelle carceri.

“L’orribile mattanza” avvenuta all’interno del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere a opera di ben 283 agenti della polizia penitenziaria dovrebbe farci riflettere su ciò che avviene all’interno degli istituti penitenziari italiani dove cresce la violenza su detenuti e si ignora la loro rieducazione.

Sono io lo Stato” e dopo avanti con calci, i pugni fino allo sfinimento. Poche righe per descrivere uno dei tanti episodi che avvengono all’interno delle nostre carceri accompagnate da una delle tante e assurde frasi pronunciate dai 283 agenti della polizia penitenziaria che il 6 aprile del 2020 diedero vita, all’interno del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, a quella che viene definita dai magistrati casertani come “un orribile mattanza, indegna di un paese civile” ai danni di ben 292 detenuti del reparto Nilo.

Un pestaggio generale che invece, un anno fa, fu definito dai responsabili del carcere come “una perquisizione” a cui oggi si accompagnano ben 52 misure cautelari: 8 arresti in carcere, 18 ai domiciliari, 3 obblighi di dimora e 23 interdizioni dal pubblico ufficio. Misure a cui però è seguita una tiepida condanna dei gravi fatti accaduti e che ci mostrano, in maniera sempre più evidente, come gli istituti penitenziari in Italia siano delle semplici costruzioni in calcestruzzo dove rinchiudere chi ha sbagliato, dove troppo spesso agenti sfogano la loro frustrazione sui detenuti, dove a essere ignorata è quella “rieducazione del condannato” a cui fa riferimento l’articolo 27 della nostra Costituzione.

foto unsplash

“Chiavi e piccone in mano, li abbattiamo come vitelli”

Tutto inizia il 5 aprile del 2020 con un caso di positività al Covid all’interno del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che fece scoppiare quella che venne definita come “una rivolta violenta” e che si andava a contestualizzare con quello che stava accadendo all’interno degli altri penitenziari italiani. In realtà però i reclusi chiedevano disinfettanti e mascherine e la loro “protesta violenta”, a differenza di quanto avvenuto altrove, consisteva nel picchierellare le inferriate delle loro celle con dei mestoli.

Conseguenza di questo gesto fu quello che nelle chat degli agenti viene definito “il sistema Poggioreale” consistente in “quattro ore di inferno” ricostruite attraverso i video delle telecamere del carcere che continuarono a documentare quello che accadde nonostante qualcuno la sera dell’irruzione avesse spento il monitor per garantirsi l’impunità. Tirati fuori dalle celle, alcuni detenuti furono fatti spogliare, presi a manganellate, calci, pugni da ben 283 agenti in tenuta antisommossa. Alle immagini che si vedono dai vari video, i racconti di chi ha vissuto quella notte aggiungono orrori su orrori.

C’è chi ha raccontato di essere “rimasto sdraiato per terra in mezzo al sangue e privo di sensi”, e ancora chi riferisce di aver “urinato sangue”. Come scritto anche dal gip Enea, in mezzo a insulti violenti, c’è anche chi ricevette “una perquisizione anale con un manganello” e poi c’è chi al seguito di tanto orrore si è suicidato come l’algerino schizofrenico Akimi Lamine, messo in isolamento subito dopo senza il nulla osta del medico.

foto unsplash

“Oggi mi sono divertito al Nilo, che spettacolo”

Dopo il massacro, tanti i messaggi di allegria, soddisfazione che circolano all’interno delle chat degli agenti indegni di rappresentare lo Stato, di animali più che uomini che si complimentano a vicenda. C’è chi annuncia fiero l’obiettivo raggiunto: “350 passati e ripassati… è stato necessario usare la forza fisica e abbiamo fatto tabula rasa” o chi si augura che “dovrebbero crollare tutte le carceri italiane con loro dentro”.

Il giorno dopo si inizia inoltre a mettere in moto il classico meccanismo burocratico per coprire quanto è accaduto e così si cerca di far passare quella “pulizia” di cui si parla nelle chat per una manovra di contenimento della protesta violenta dei carcerati. Per giustificare le numerose ferite dei detenuti si fanno firmare referti medici falsi, si manomettono i verbali, si falsificano i resoconti, iniziano i depistaggi per far passare come eroi massacratori nascosti dietro un casco e un manganello.

Le violenze sui detenuti

Quest’episodio però non è isolato: come denuncia da anni l’associazione Antigone, l’uso della violenza sui detenuti all’interno delle nostre carceri è in aumento. Violenza illegale e arbitraria che si aggiunge alle altre carenze dei nostri istituti penitenziari come la scarsa igiene, il cibo insufficiente, la mancanza di riscaldamento e di acqua calda in alcune sezioni di alta sicurezza. Violenza che sicuramente non ha nulla a che vedere con le finalità rieducative, ecco perché non c’è da stupirsi se il 68% dei detenuti dopo la reclusione ritorna a delinquere.

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Ovviamente, persone che fanno della violenza una loro bandiera, che si vantano di aver picchiato di più magari sotto lo sguardo innocente dei figli sono inadatte a svolgere il ruolo che la nostra costituzione prevede. Invece di parlare delle carceri in maniera saltuaria quando succedono episodi del genere bisognerebbe non solo sostituire queste figure inadatte con persone che hanno a cuore il loro compito ma anche moltiplicare i percorsi rieducativi, introdurre diverse figure di sostegno e anche la frequenza della manutenzione degli istituti penitenziari italiani perché, come diceva Voltaire: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”

Paolo Di Falco

18 anni, di Siracusa. Ho creato La Politica Del Popolo, un sito di news gestito da giovani.

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