L’onere probatorio nei rapporti fra fisco e contribuente
Alberto Michelis
31 maggio 2023
Nei rapporti fra fisco e contribuente la produzione della prova ha ora un traguardo da raggiungere: andare oltre ogni ragionevole dubbio. Vediamo perché.
La riforma dell’art. 7 comma 5-bis del D. Lgs. 546/92 ha segnato un punto di svolta nei rapporti fra il fisco e il contribuente.
Da un lato, infatti, la disposizione introduce (anche se sarebbe più corretto dire “ribadisce”), un principio di riparto dell’onere probatorio, che sconfessa anni di elaborazioni giurisprudenziali, mentre dall’altro la riforma qualifica la prova, espressamente demandata all’Ufficio, in modo del tutto peculiare.
Lo fa imponendo che la prova descriva un’interpretazione dei fatti economici oggetto di imposizione fiscale non solo come “possibile”, ma come la “più ragionevolmente probabile” fra quelle possibili.
L’onere probatorio nella giurisprudenza
Sotto il primo profilo è noto che nel recente passato la giurisprudenza avesse sostanzialmente definito un criterio tripartito in tema di onere probatorio prevedendo che:
- la prova dei maggiori ricavi fosse sempre a carico dell’Ufficio;
- la prova della esistenza/inerenza dei costi o della spettanza di detrazioni fosse a carico del contribuente, seppur a fronte di argomentazioni tali da instillare ragionevoli motivi per dubitare (cd. “onere di contestazione argomentata”);
- la prova dei regimi di favore e dei rimborsi fosse sempre a carico del contribuente.
La riforma dell’art. 7 comma 5-bis del D. Lgs. 546/92 apparentemente scardina questo impianto dalle fondamenta.
A dispetto di qualche primo timido cenno della Cassazione, dal tono vagamente gattopardesco, secondo cui nulla sarebbe in realtà cambiato, se viene semplicemente attribuito alla nuova disposizione il senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” è chiaro che tutta la giurisprudenza in tema di riparto dell’onere della prova degli ultimi decenni, dovrebbe considerarsi ormai superata.
Le novità dell’ordine probatorio per fisco e il contribuente
La nuova disposizione, infatti, prevede che sul contribuente incomba ex lege, unicamente l’onere di provare la spettanza dei rimborsi: dal che si dovrebbe dedurre conseguentemente che sull’Ufficio dovrebbe gravare la prova di tutte le altre contestazioni, inclusa la non spettanza, inesistenza o non inerenza di deduzioni e costi e la non applicabilità di regimi agevolati.
Cosa cambia dunque rispetto al passato?
Secondo una lettura garantista delle disposizioni di legge, condivisa da buona parte della dottrina, non cambia nulla. A questo riguardo avrebbe pienamente ragione la Cassazione con la sentenza n. 31878/2022.
In realtà cambia tutto, perché quella lettura garantista era stata proprio ampiamente sconfessata dalla pressoché costante giurisprudenza di Cassazione.
Da questo punto di vista, pertanto, la disposizione, pur apparendo perfettamente in linea con le disposizioni sull’accertamento che imponevano già all’Ufficio di motivare e di provare la pretesa impositiva, innova il diritto vivente sovvertendo principi stratificati in modo più o meno consapevole nelle sentenze di Cassazione.
La qualità della prova: oltre ogni ragionevole dubbio
La portata della novella, tuttavia, non è solo limitata alla questione del “riparto” dell’onere probatorio, ma investe un altro tema enorme che è quello della “qualità” della prova.
Non ci si limita infatti a dire che l’Ufficio “prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”.
Si aggiunge anche che “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”, il giudice annulla l’atto impositivo.
Ciò porta a dire che la prova richiesta all’Ufficio non è una prova “comune”, ma ha una qualificazione del tutto peculiare e rafforzata. È una prova di alta qualità.
La scelta lessicale del legislatore non è casuale, ma riproduce in maniera pressoché identica una norma già ben consolidata nel nostro ordinamento giuridico, ossia la disposizione dell’art. 530 secondo comma c.p.p.:
“Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.
Questo rimando testuale è evidentemente voluto e porta a riflettere sul fatto che, per come è scritto, il nuovo art. 7 comma 5 bis introduce nell’ambito processual-tributario il concetto di prova “oltre ogni ragionevole dubbio” che è propria dell’ambito penale.
Per essere fondata la tesi dell’Ufficio non deve solo essere “possibile” alla luce degli elementi acquisiti e delle presunzioni eventualmente concesse dall’ordinamento, ma deve essere anche quella ragionevolmente più probabile in assoluto. Parimenti le diverse argomentazioni addotte dal contribuente devono risultare “prive del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana” (così, ad esempio in Cass. Pen. n 1282/2018, e Cass. Pen. n. 48541/2018).
Il salto di qualità della prova: da possibile a più probabile in assoluto
Il passaggio fra la ricostruzione “possibile” e quella “più probabile in assoluto” ha un ruolo importantissimo in un ambito giuridico, in cui spesso l’Ufficio si è avvantaggiato di presunzioni di “fonte” addirittura giurisprudenziale per motivare i propri atti.
Il salto di qualità ha anche una ricaduta immediata anche sulla difesa del contribuente: qualora venga dal contribuente fornita una ricostruzione dei fatti, alternativa a quella dell’Ufficio, fondata su elementi concreti, è evidente che toccherà all’Ufficio controdedurre efficacemente, per escludere motivatamente la plausibilità della tesi difensiva (Cass. pen. 10093/2018).
Se ciò non fosse possibile, se cioè la spiegazione dei fatti fornita dal contribuente risultasse coerente e razionale, dati gli elementi conoscibili al momento dei fatti e comunque plausibile, l’atto impositivo non potrebbe considerarsi provato oltre ogni ragionevole dubbio, e quindi andrebbe sempre e comunque annullato.
L’introduzione di questo sistema di prova rafforzata di derivazione penale, deve essere, ovviamente, salutata con favore, come un’implicita presa d’atto della “consustanziazione” (per dirla con Lutero) del diritto tributario con il diritto “punitivo”, “penale” nell’accezione data a tale termine dalla giurisprudenza EDU, ossia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
La “presunzione di innocenza” nel processo tributario
Se è vero, infatti, che il processo tributario in sé e per sé, ha quale obiettivo principale valutare il fondamento della pretesa tributaria, risulta anche evidente che a tale accertamento di regola consegue anche l’applicazione di una sanzione, laddove l’obbligazione tributaria non sia stata correttamente assolta.
Il processo tributario, in questa prospettiva, si caratterizza pertanto per una natura ibrida, in cui la componente sanzionatoria, sebbene non in via prioritaria, è comunque presente e inscindibilmente legata all’accertamento sulla debenza del tributo.
Dire dunque che l’accertamento del presupposto impositivo deve essere provato dall’Ufficio al di là di ogni ragionevole dubbio non è qualcosa di anomalo o aberrante, ma appare come il logico completamento di una riflessione sul sistema sanzionatorio (e punitivo) dello Stato in generale che fonda i suoi principi nella Costituzione, nel Codice Penale e, via via, nella disciplina della Legge 689/81 e quindi del D. Lgs. 472/97.
Si tratta in definitiva, di un (necessario) tassello che contribuisce a completare un quadro già abbozzato dalla Corte EDU con la Sentenza Vegotex contro Belgio che, in netta antitesi (ma, per la verità in coerente completamento) della sentenza Ferrazzini contro Italia, ha attratto l’ambito del processo tributario e in particolare della sua componente sanzionatoria, nella sfera operativa delle garanzie degli art. 6 (in tutti i tre paragrafi) e 7 CEDU.
In tale chiave si coglie pienamente la portata del nuovo art. 7 comma 5 bis della Legge 546/92 che nell’imporre la prova “oltre ogni ragionevole dubbio” della pretesa impositiva ammicca anche alla presunzione di innocenza.
Si tratta, in ogni caso, di un avvicinamento al vocabolario del diritto penale, non certo di un’equiparazione piena.
La prova demandata all’Ufficio, infatti, deve essere data “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale”, ma continua a beneficiare di talune agevolazioni, prime fra tutte le presunzioni, assolute, legali, semplici e semplicissime variamente configurate dalle disposizioni in materia di accertamento o nelle singole leggi d’imposta, che nel penale non trovano cittadinanza alcuna, come è ovvio che sia.
Resta dunque in ambito penale un rigore probatorio maggiore di quello, pur rafforzato, richiesto agli enti impositori a sostegno della pretesa tributaria.
Ma l’intenzione del legislatore dell riforma deve comunque essere salutata con favore, nella prospettiva di un rapporto più equilibrato fra il fisco e il contribuente.
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