2022 da record per l’export di vino: a cosa fare attenzione quando si esporta l’eccellenza italiana
Un recente rapporto dell’Osservatorio Uiv, Ismea e Vinitaly mostra dati in forte crescita per il fatturato e non per i volumi di export di vino italiano: vediamo insieme cosa significa e a cosa deve fare attenzione una cantina italiana che esporta il suo vino.
Un ricordo. Una nave si avvicina al porto di Genova, carica di grandi botti di vino. Arriva da lontano, da molto lontano, dall’altra parte del mondo; arriva dall’Australia.
Il vino non è destinato al nostro Paese; qui, deve solo sostare; il tempo di sbarcarlo, trasferirlo in Piemonte e imbottigliarlo, poi, da lì, proseguirà verso la sua destinazione, il mercato britannico.
Perché imbottigliarlo in Italia?
Perché il proprietario, un gentiluomo di origine italiane che conosce il mondo del vino meglio del salotto di casa propria, ha fatto una scoperta bizzarra e interessante: basta aggiungere sull’etichetta di una bottiglia la semplice scritta “Bottled in Italy” perché, in certi Paesi, le vendite crescano vertiginosamente.
Nessun inganno: il vino è australiano, semplicemente imbottigliato qui da noi; ma l’indicazione “Italia” associata al vino è una garanzia di qualità universalmente riconosciuta, che ben compensa i costi logistici di questo simpatico viaggio intorno al mondo.
Questa considerazione è riconosciuta anche a livello commerciale: i risultati ottenuti dalle vendite di vino italiano nel 2022 lo testimoniano.
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I dati dell’Osservatorio Uiv, Ismea e Vinitaly: un vero record o no?
7,9 miliardi di euro, + 9,8% rispetto all’anno precedente. A tanto ammonta il valore complessivo delle esportazioni realizzate lo scorso anno, secondo l’analisi recentemente pubblicata (in occasione della fiera Vinitaly) dall’Osservatorio Uiv, Ismea e Vinitaly.
7,3 miliardi di euro. A tanto ammonta l’attivo del settore realizzato lo scorso anno.
Eppure, il volume di vino esportato si è attestato a 22 milioni di ettolitri, inferiori dello 0,6% rispetto all’anno precedente. Come è possibile?
L’analisi dell’Osservatorio Uiv, Ismea e Vinitaly, che ha elaborato i dati rilasciati da Istat sui 12 mesi dello scorso anno, riconosce come il record commerciale sia senz’altro determinato da un doping dei prezzi, tanto necessario al fine di limitare l’erosione dei margini causata dal surplus dei costi, quanto pericoloso sul fronte dei consumi previsti per il 2023; il surplus dei costi ha infatti alzato il prezzo medio dell’11 per cento.
Insomma, più fatturato, meno produzione, uguale prezzi più alti; bene, ma non benissimo, perché la crescita dei costi di produzione ha eroso i margini della filiera, in particolare per i prodotti fino a 6 euro al litro.
E un campanello di allarme: l’ultimo trimestre del 2022 ha registrato un forte rallentamento, con chiusura nei valori a +5% contro +19% di marzo, +11% di giugno e +12% di settembre, mentre i volumi non si spostano da valori negativi (-3% medio da giugno, con il solo primo trimestre positivo).
Smentito (o confermato?) dai primi dati 2023: esportazioni a 474,8 milioni di euro, volumi a 135 milioni di litri, -4,2%, sostanzialmente i dati del mese di gennaio 2022.
Dunque, Italia primo Paese esportatore per volumi, ma secondo per valore: è lontana, lassù, la Francia (12,3 miliardi di euro, +11% in valore rispetto all’anno precedente, ma -5% in volume) d è lontana, laggiù, la Spagna (2,98 miliardi di euro, +3,5% in valore rispetto all’anno precedente, ma -9% in volume).
Export di vino: luoghi di produzione e quelli di arrivo più gettonati
Francia e Italia: la prima forte di denominazioni e vitigni numerosi e pregiati, di scarsi, ma rinomati territori di produzione: Bordeaux e Borgogna, Provenza, Loira e Valle del Rodano, luoghi che evocano memorie di antiche gesta cavalleresche.
Campagne a parte. “Lo champagne è un vino. Anzi no. E’ champagne. E si discosta dal vino non tanto per la seconda fermentazione quanto per la sua verticalità, che significa piena e assoluta compenetrazione del terroir”. Sia consentito riportare le parole di Richard Geoffroy, visionario ex Chef de Cave Dom Perignon, da poco trasferitosi in Franciacorta, nella cantina Bellavista, alla corte di Vittorio Moretti, testimonianza di un legame sempre più stretto tra due mondi troppo diversi, per essere concorrenti.
La seconda che nasconde tra le sue vigne una storia millenaria, fatta di artigiana passione e fatica, di faticose colline e di impervie montagne, di infrastrutture arcaiche e di un mercato chiuso, scardinato dalla caparbietà di una dedizione assoluta, cresciuta fino a forgiare, in tante parti d’Italia, vini osannati nel mondo, dal fascino intramontabile.
Entrambe, esempio del vino come cultura, elemento fondante dell’identità nazionale e dei territori, nonché un pilastro dell’economia e dell’export agroalimentare. Con una differenza: se il valore unitario al litro in Francia ha toccato un valore di 8,8 euro (+ 16%), il più alto di sempre, in Italia, nonostante una leggera crescita, lo stesso si è fermato a 3,58 euro al litro; c’è ancora da lavorare, sul mercato, non sulla qualità.
Veneto, Piemonte, Toscana: questo il podio delle regioni esportatrici, ma un plauso anche a Friuli-Venezia Giulia, Marche e Sicilia, per uno sprint degno di nota.
Destinazioni? USA, Germania, Regno Unito, Canada, Svizzera e, in netta crescita, udite udite, Francia!
Delocalizzare e internazionalizzare: le differenze
“Il successo dipende dalla preparazione precedente, e senza una tale preparazione c’è sicuramente il fallimento”; Confucio fonte inesauribile di millenaria saggezza.
L’internazionalizzazione può essere intesa come il processo attraverso il quale le imprese investono all’estero, con l’obiettivo di conquistare progressivamente quote di mercato.
Sovente, viene confusa con la delocalizzazione, dimenticando le differenze, in termini di obiettivi e di risorse, che i due processi presentano.
La delocalizzazione presuppone il trasferimento di unità produttive verso mercati emergenti caratterizzati da bassi costi di produzione, con l’obiettivo di ridurre proprio tali costi (sensibilmente maggiori nel mercato del lavoro nazionale) per offrire prodotti a prezzi più concorrenziali sul mercato nazionale, che continua ad essere il proprio punto di riferimento.
La strategia di internazionalizzazione più semplice e immediata è certamente l’esportazione, che non comporta la necessità di alcuna unità produttiva nei nuovi mercati, ma il solo trasferimento del prodotto da commercializzare.
Esportare è ciò che fanno le cantine, grandi e piccole.
Ed entrambe, soprattutto le seconde, devono prestare una particolare attenzione al processo di esportazione, a volte cercato e voluto, a volte subito, sempre pericoloso per chi non ha organizzazione e struttura.
Esportare è facile dicono in molti; e in molti si sono gettati in un mercato potenzialmente infinito e che vive della considerazione e del rispetto verso il nostro prodotto, anche in un mercato virtuale, fatto di negozi online e clienti sparsi nel mondo, avvicinati dal mezzo telematico.
A cosa deve fare attenzione una cantina che esporta il suo vino?
Innanzitutto, è necessario conoscere i mercati cui ci si vuole rivolgere e gli accordi che le dogane del paese di produzione e quelli di arrivo hanno tra loro. Nei paesi UE ed extra-UE l’accisa, a differenza dell’Italia, pur se chiamata diversamente, si paga; e occorre capire chi paga, come si paga, quando si paga e quanto si paga.
Una volta acquisite queste conoscenze di base, un lavoro di strategia e di pianificazione dei flussi di esportazione, per ridurre i rischi al minimo ma anche per risparmiare sui costi e magari anche rendere il prodotto più competitivo sul mercato estero ed i processi più fluidi, meno complessi, è fondamentale.
Ricordiamoci che i rischi sono democratici, non importa la dimensione dell’esportatore.
Se hai bisogno di essere affiancato nel tuo processo di internazionalizzazione o di ottimizzare il tuo flusso di export e ridurre al minimo il rischio contattaci, risponderemo alle tue domande e valuteremo volentieri il tuo caso.
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