Il Recovery Fund e le priorità per un sistema economico sostenibile in Europa
Giuseppe Montalbano
26 ottobre 2020
Il fondo per la ripresa rappresenta un’occasione unica per avviare la transizione a un modello economico sostenibile a livello ambientale e sociale, in discontinuità con l’attuale approccio europeo
Il dispositivo per la ripresa e la resilienza costituisce il nucleo del fondo Next Generation EU (€672,5 su €750 miliardi), approvato lo scorso luglio dai governi degli stati membri per sostenere l’economia dei Paesi più colpiti dalla crisi pandemica, promuovendo allo stesso tempo la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile. Il duplice obiettivo sulla carta nasconde una tensione irrisolta fra due alternative non conciliabili.
Da un lato la priorità di fatto assegnata alla crescita del PIL, da conseguire attraverso politiche straordinarie come appunto il Recovery Fund e la sospensione dei vincoli di bilancio a livello europeo, di natura temporanea e destinate a lasciare il campo alla normale conduzione delle politiche economiche basate sulle regole di Maastricht.
Dall’altro la volontà di promuovere della resilienza delle economie europee: principio che, se preso sul serio, implicherebbe l’indirizzamento complessivo delle risorse in modelli produttivi e di consumo sostenibili, incompatibili con la crescita del PIL a tutti i costi e con l’attuale filosofia economica dell’UE.
Dei due obiettivi, solo il secondo potrebbe assicurare una ripresa economica resiliente sul lungo periodo, perché in grado di fare i conti con la catastrofe ambientale e sociale portata dagli sconvolgimenti climatici e degli ecosistemi naturali.
Il Recovery Fund potrà essere uno strumento utile nel quadro dell’attuale crisi pandemica solo nella misura in cui serva a promuovere la transizione verso un’economia sostenibile a livello ambientale e sociale: il che significa mettere fine al primato del rigore fiscale e della disciplina di mercato nel governo economico dell’Unione.
Ripresa o resilienza?
Il primo obiettivo dichiarato del Recovery Fund è quello di promuovere la crescita del PIL e solo secondariamente e in subordine quello di assicurare la resilienza delle economie europee. Un ordine di priorità discutibile qualora si consideri la reale portata e utilità del dispositivo UE. Risulta evidente che il fondo europeo, una volta ottenuto il per nulla scontato via libera del parlamento europeo e dei 27 parlamenti nazionali, non possa immettere da solo risorse tali da consentire la ripresa dei Paesi più colpiti dalla crisi.
Le risorse a fondo perduto del fondo (i grants) ammontano infatti a €312,5 miliardi, pari ad appena il 2% dell’intero PIL dell’UE, a fronte di una contrazione prevista maggiore dell’8% e una perdita del PIL a due cifre per paesi come l’Italia e la Spagna. La parte restante del dispositivo di ripresa è costituita da prestiti, per 360 miliardi complessivi, che – pur a tassi e condizioni agevolate – graveranno sui debiti pubblici nazionali e dovranno essere restituiti secondo condizioni stabilite nel quadro del semestre europeo e dei relativi vincoli di bilancio: non a caso un governo beneficiario netto del fondo, come la Spagna, appare intenzionato a non richiedere la parte dei prestiti prevista.
Per la sua portata e condizioni, il fondo europeo potrà quindi contribuire in minima parte alla ripresa vera e propria. Quest’ultima è trainata nell’immediato dal basso costo di finanziamento sui mercati, con tassi di interesse a zero o negativi e con l’abbondante richiesta di titoli sovrani, unitamente alla sospensione del patto di stabilità e crescita. Per questo il dispositivo per la ripresa e la resilienza dovrebbe porsi come autentico obiettivo, insieme più realistico e ambizioso, quello di promuovere di investimenti mirati per favorire la transizione verso un modello economico alternativo, effettivamente resiliente sul lungo periodo. Un fondo che serva a orientare la direzione generale delle attività economiche e finanziarie nel Continente verso il superamento di un’economia basata sull’insostenibilità ambientale e sociale, come quella che continua a caratterizzare l’approccio europeo.
Un fondo europeo per la resilienza
A questo scopo il dispositivo per la ripresa dovrebbe essere integralmente indirizzato a investimenti verso attività e infrastrutture che non procurino danni all’ambiente e che al contrario possano assicurare il rispetto degli accordi di Parigi del 2015. Nell’accordo di luglio, al contrario, si fa un riferimento generico all’importanza di investimenti “green” nella valutazione dei piani di ripresa e resilienza, in subordine all’obiettivo di crescita del PIL.
A confermare un simile approccio è anche il vincolo secondo cui almeno il 30% delle risorse totali stanziate dal fondo Next Generation EU e il bilancio pluriennale dell’Unione sia destinato a obiettivi legati al contrasto al cambiamento climatico. Se, da una parte, tale vincolo costituisce un passo in avanti, il fatto che si releghi una quota percentuale minore agli obiettivi di sostenibilità è indice dell’approccio ancora parziale e settoriale.
Al contrario, le risorse stanziate dal Recovery Fund e i relativi piani per la ripresa potrebbero e dovrebbero basarsi integralmente sui criteri stabiliti dalla recente tassonomia europea sulle attività sostenibili, come proposto in un recente rapporto da Finance Watch.
Questo significa che la risorse del dispositivo UE non dovrebbero finanziare attività che non rispettivo i criteri di sostenibilità sanciti dalla tassonomia europea. I finanziamenti pubblici ad imprese le cui attività non siano sostenibili eliminerebbero ogni incentivo per queste stesse imprese a investire in produzioni e pratiche in linea con gli obiettivi per una transizione verde. In questo modo l’UE otterrebbe un risultato in aperta contraddizione col gli obiettivi strategici stabiliti nel Green Deal europeo.
La transizione è possibile solo a patto il sistema produttivo e finanziario, pubblico e privato, investano attivamente per la loro riconversione: un investimento orientato ad assicurare la sostenibilità, posti di lavoro e creazione di valore nel lungo periodo.
Altro requisito essenziale è che i 750 miliardi del Recovery Fund stanziati attraverso una forma di indebitamento comunitario, gestito dalla Commissione, vengano recuperati attraverso l’emissione di obbligazione verdi (i green bonds), su cui è in corso una proposta di definizione e regolamentazione a livello europeo. Solo in questo modo i fondi raccolti dalla Commissione risponderebbero pienamente all’obiettivo generale della resilienza, impedendo che il Recovery Fund serva a finanziare attività incompatibili con i criteri di sostenibilità europei. In questo senso risulta urgente la definizione di un green bond a livello europeo, come strumento di debito alla base dell’agenda UE per una finanza sostenibile.
Sostenibilità sociale come premessa di quella ambientale
Promuovere la transizione ecologica significa assicurare che i lavoratori dei settori non sostenibili abbiano una continuità di reddito, insieme alla possibilità di essere reimpiegati nelle attività sostenibili beneficiarie delle politiche UE. In questo senso le risorse europee dovrebbero essere indirizzate alla riconversione professionale dei lavoratori, parallelamente alla promozione di investimenti che creino nuovi posti di lavoro in attività sostenibili. Allo stesso tempo, la transizione ecologica richiede l’adozione di un reddito minimo garantito, a tutela dei lavoratori e lavoratrici che non possono riqualificarsi.
Anche per questo un autentico piano per la resilienza implica il superamento dei vincoli fiscali e della subordinazione alla disciplina dei mercati che caratterizzano l’approccio UE alle politiche di coordinamento economico. Se il Recovery Fund può rappresentare un primo passo, la strada per la transizione ecologica vede al centro la capacità di spesa degli Stati, gli unici a poter finanziare un programma autentico di riconversione verso un modello sostenibile di sviluppo.
Ecco perché la riattivazione del patto di stabilità, dopo la sua sospensione eccezionale, rappresenterebbe un ostacolo insormontabile al perseguimento di un piano di lungo periodo per la transizione eco-sostenibile.
Non può esistere insomma un Green Deal europeo senza un “patto” e un “corso” radicalmente nuovi fra istituzioni europee e cittadini degli Stati Membri che superi un modello di integrazione basato sul rigorismo fiscale e la disciplina di mercato.
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