Bond oggi – Perché i mini corporate italiani sono senza rating? Un punto debole da valutare
Lorenzo Raffo
13 novembre 2025
Vari motivi spingono gli emittenti a non richiederli. Per ora il settore non ne ha risentito (anzi!) ma se il vento dovesse cambiare ne potrebbe soffrire.
Per prima è stata la Germania, poi è venuta la Francia (sebbene in misura minore) e infine l’Italia: le emissioni di obbligazioni proposte non da leader dell’economia ma da società affermate in attività di nicchia stanno caratterizzando il settore del credito da alcuni anni.
A Piazza Affari le varie Maire, Alerion, Kme, Newprinces, Carraro, Dolomiti, Ivs e Ovs - e la lista potrebbe proseguire – animano quotidianamente gli scambi sul Mot e sono entrate in tanti portafogli del retail. Grazie soprattutto a rendimenti cedolari significativi.
Attenzione, tuttavia, a una peculiarità: gli emittenti di tale tipo sono più veloci dei big nell’esercitare le call previste prima della scadenza dichiarata, adattandosi così al variare dei tassi di interesse. L’ultimo esempio è quello di Maire, che sta per rimborsare la 6,5% 2028 dopo il debutto della 4% 2030. Ben 250 punti base in meno di costo per la società con una scadenza allungata di due anni sono proprio una differenza rilevante.
Senza rating, perché
Così come in Germania queste obbligazioni sono però prive di rating relativo all’affidabilità creditizia, salvo in due casi: si tratta di Dolomiti (BBB+ di Fitch) e Alperia (BBB di Fitch). Per le altre tale riferimento – utile o meno che sia – non c’è. I motivi della scelta sono numerosi e vanno presi in considerazione.
- Ottenere un rating dalle grandi agenzie internazionali costa e non poco; si stima che il relativo onere si aggiri su alcune decine di migliaia di euro ogni anno. Spesso i suoi vantaggi non compensano questi aggravi. Inoltre l’iter richiede alcuni mesi, contrastando con l’esigenza di tempi veloci nel proporsi sul mercato. Si tratta molte volte di finestre temporali strette (per la necessità di raccolta dei capitali o per altri motivi), che occorre cogliere velocemente.
- In questo contesto di società il rating si aggira fra la parte bassa degli “investment grade” e soprattutto quella alta dei “non investment grade”, il che potrebbe comportare movimenti significativi delle quotazioni in presenza di deterioramenti creditizi, aspetto poco apprezzato evidentemente da chi emette.
- Ciò rende certamente più complesso il confronto fra le varie emissioni, mancando uno dei parametri di selezione più seguiti dagli investitori soprattutto istituzionali.
- È risaputo infine che il retail è alla ricerca costante di rendimento, in altre parole della cedola. Il termine di raffronto risulta questo. Perché penalizzarsi con un rating (che talvolta sarebbe basso) quando la valutazione di chi compra tiene conto soprattutto del coupon e dell’andamento delle quotazioni, quindi del rendimento a scadenza, molto volatile per i mini corporate.
Anni di bonaccia
Tutto questo avviene in un contesto molto favorevole per il credito societario. A livello globale di crisi da pesanti default non se ne sono viste. I tassi di interesse hanno registrato inoltre alti e bassi significativi ma tutto sommato gestibili dagli emittenti, grazie anche – come detto – a call abbastanza strette nei tempi e per loro favorevoli.
L’assenza di venti contrari ha certamente facilitato il settore, incoraggiando nuovi nomi a entrare sul mercato, come si vede anche in altri Paesi. Il quadro quindi è favorevole, facendo sì che l’assenza di valutazioni di credito non penalizzi le scelte degli investitori. Se dovesse però cambiare, i titoli “unrated” – cioè senza rating – sarebbero i primi a risentirne.
Se ne tenga debitamente conto.
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