Di chi è la colpa del riscaldamento climatico: la propaganda contro il consumatore

Giorgia Bonamoneta

2 Settembre 2021 - 19:30

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Si parla sempre più spesso del riscaldamento globale e delle sue conseguenze, ma non della colpa. Questa viene scaricata sul consumatore, senza guardare ai grandi assenti: multinazionali e governi.

Di chi è la colpa del riscaldamento climatico: la propaganda contro il consumatore

È vero, potremmo tutti fare di più per l’ambiente, ma è davvero colpa del consumatore se sul pianeta Terra si stanno sentendo gli effetti di un generale riscaldamento globale? La produzione senza sosta delle aziende, delle fabbriche, anche quella alimentare e gli sprechi che genera, non sembrano subire gli effetti di una presa di posizione da parte del consumatore.

Diciamo la verità: da tempo è ormai chiaro che le aziende, soprattutto le grandi multinazionali che generano tanti profitti quanta impronta ecologica, non stanno davvero cercando di mettere una pezza sul problema ambientale del quale sono state artefici.

Il consumatore in tutto questo che colpe ha? Da un punto di vista individuale, ovvero ciò che il singolo può fare, ha sicuramente delle colpe. Potremmo tutti iniziare ad avere meno impatto sull’ambiente, ma senza il supporto delle grandi aziende si rischia di fare la figura di Don Chisciotte contro i mulini a vento.

Il cambiamento climatico è responsabilità del governo, non dei cittadini

Il riscaldamento climatico e il conseguente cambiamento climatico, sul quale si può discutere dell’influenza o meno umana ma di cui comunque subiremo le conseguenze (senza fare apparentemente nulla di rivoluzionario in merito), è colpa degli Stati e delle aziende. Non dei cittadini, non dei consumatori.

La responsabilità del singolo individuo è il punto di vista sbagliato da prendere in questo scenario. Per quanto il consumatore può adottare comportamenti sani e salutari per l’ambiente, nulla cambierà mai davvero fino a quanto non saranno le grandi aziende, e la loro influenza sulla politica, a cambiare atteggiamento.

Così come è vero che solo l’intervento dello Stato sul comportamento dei suoi cittadini, in maniera passiva o attiva, con tasse o lezioni sulla cura dell’ambiente, può riformare e promuovere il concetto di cultura ambientale; è anche vero che, fino a quando non si premerà perché le aziende cambino il loro modus operandi, tutto questo processo non avrà inizio.

Crisi climatica e la metafora del cane che si morde la coda

Attenzione, questo discorso non vuole negare gli enormi passi avanti che le aziende e determinati governi stanno facendo in merito all’argomento del riscaldamento globale; vuole però far notare come non sia abbastanza. Non è abbastanza perché, come ha anticipato il Rapporto IPCC, abbiamo ormai toccato l’ora zero e non c’è tempo di festeggiare sulla sconfitta delle aziende petrolifere prima di aver reso accessibile a tutti tecnologie che sfruttino energie elettrica sostenibile. Solo per fare un esempio.

Apple, Microsoft, Facebook, Alphabet e Amazon spendono solo il 4% dei loro stratosferici guadagni per influenzare mercato, politica e opinione pubblica. È abbastanza? Non sembra proprio. Dall’altra parte lobby ancora potenti fanno il gioco dello “scarica barile” con i consumatori.

La metafora del cane che si morde la coda è quella del sistema della grandi multinazionali della tecnologia, che creano e propongono nuove tecnologie green, ma allo stesso tempo non hanno la forza di influenzare la politica del cambiamento green.

Il ruolo del consumatore

In questo dibattito fatto di grandi numeri, grandi proposte e catastrofiche conseguenze, il consumatore ha un ruolo marginale, da sempre. Negli ultimi decenni, grazie anche alla crescita dei social network, l’influenza del singolo e di chi riesce a trascinarsi dietro (follower) è diventata sempre maggiore, ma non avranno mai i numeri (parliamo anche di soldi) per impedire di far alzare la temperatura terreste di un altro grado e mezzo (+1,5°).

Mentre il consumatore raccogliere bottiglie di plastica in riva al mare, compiendo un’azione encomiabile, chi le produce quelle bottiglie continua a lavorare e guadagnare. Mentre il singolo prende la decisione di comprare una bicicletta per produrre meno Co2, i petrolieri continuano ad accumulare barili e barili di benzina.

Dov’è lo Stato, che potrebbe aumentare i posti di lavoro nella raccolta rifiuti? Dov’è l’energia alternativa a costo basso per non creare disparità di classe tra un acquirente A e un acquirente B che non può permettersi l’auto elettrica? A queste domande devono rispondere anche le grandi aziende che per un buon 51% ignorano il proprio impatto ambientale (indagine condotta da Capgemini). Con la loro influenza economica potrebbero cambiare il mondo, ma hanno scelto di non farlo, per esempio molte aziende (e molti Stati) comprano i crediti di carbonio e continuano a produrre sopra una certa soglia che hanno già superato, ovvero la loro.

E al consumatore non rimane che sentirsi colpevole per via di spot, campagne pubblicitarie, post social sponsorizzati, per non parlare delle scritte sui prodotti alimentari o meno, come “vegan”, “bio”, “chilometro zero” (detto anche fenomeno greenwashing), per i quali agiscono, si smuovono, manifestano ottenendo solo qualche promessa e qualche cannuccia di cartone.

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