Perché il coronavirus mette a rischio l’aborto

Isabella Policarpio

15 Aprile 2020 - 13:56

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Abortire in Italia non è cosa da poco a causa dei troppi obiettori di coscienza. Adesso la chiusura dei reparti e dei consultori per il coronavirus rischia di peggiorare la situazione. Eppure l’aborto è un “servizio essenziale”.

Perché il coronavirus mette a rischio l’aborto

Mai come adesso abortire in Italia è stato difficile. Infatti l’emergenza sanitaria in atto ha causato la chiusura di molti reparti ospedalieri e l’attività dei consultori è ridotta all’osso.

Gli sforzi di medici e infermieri sono concentrati nella battaglia contro il coronavirus, esigenza primaria che rischia di compromettere l’accesso all’interruzione volontaria della gravidanza, che già in tempi normali deve superare l’ostacolo degli obiettori di coscienza. Una tragedia nella tragedia, e a pagarne il prezzo più alto sono le ragazze più giovani, senza soldi e spesso senza il sostegno dei genitori.

Da Nord a Sud, aumentano ogni giorno le testimonianze shock di donne che, prossime alla scadenza delle 12 settimane, sono state costrette a rivolgersi a strutture ospedaliere lontane dal proprio Comune di residenza, con enormi difficoltà a causa della soppressione e della riduzione di diverse tratte ferroviarie.

Il problema non è passato inosservato, per fortuna, e molte associazioni (come Laiga, Pro-Choise, Amica e Vita di Donna) si sono già mobilitate per sensibilizzare le Autorità, invocando una vecchia battaglia: l’incremento del ricorso all’aborto farmacologico in alternativa a quello chirurgico. Adesso spetta al Ministro Speranza dare delle risposte concrete nel più breve tempo possibile.

Favorire l’aborto farmacologico: l’appello di Saviano e Boldrini

Una soluzione per garantire l’accesso all’aborto e rispettare le misure anti-COVID-19 c’é: privilegiare l’interruzione di gravidanza farmacologica, senza ricovero in ospedale, lasciando i posti letto liberi a chi ne ha più bisogno perché infetto.

Questa è la proposta avanzata da Roberto Saviano, Laura Boldrini, Marco Cappato (attivista per l’eutanasia legale), Lea Melandri, Livia Turco e Moni Ovadia, in una lettera aperta indirizzata al Ministro della Salute Roberto Speranza. L’appello è di non dimenticare le esigenze di quelle donne che devono o vogliono ricorrere all’aborto ma rischiano di non poterlo fare a causa della sospensione del servizio, cosa che potrebbe far esaurire il tempo a disposizione per ricorrere alla pratica.

Per questo è necessario dilatare i termini consentiti per interrompere la gravidanza tramite Ru486 (il nome del farmaco abortivo) che ad oggi in Italia è permesso fino alla 7^ settimana, un lasso temporale troppo breve per consentire l’accesso all’aborto durante il coronavirus.

I firmatari della lettera chiedono di estendere l’utilizzo della procedura farmacologica fino alla 9^ settimana di gravidanza, unica soluzione per permettere in concreto l’accesso alla pratica abortiva, che nel nostro Paese - nonostante sia legge dal 1978 - è per molti ancora un tabù.

Cos’è e come funziona la Ru486

L’introduzione dell’aborto farmacologico in Italia è frutto di una grande battaglia dei Radicali, grazie ai quali a partire dal 2009 esiste un’alternativa alla procedura chirurgica, nel pieno rispetto della Legge 194.

La Ru486 è un antiprogestinico di sintesi che viene utilizzato per indurre l’interruzione della gravidanza in maniera non invasiva, entro i primi 49 giorni di amenorrea (7 settimane) ed è disponibile sul mercato in quasi tutti i Paesi dove l’aborto volontario è legale.

La pratica farmacologica consiste nell’assunzione di due dosi, senza bisogno di anestesia e ricovero, ma, nonostante gli indiscussi vantaggi per le donne, sono ancora poche le strutture che offrono questa alternativa.

Il coronavirus, dunque, potrebbe essere l’occasione per sdoganare il farmaco e ampliarne la portata, battaglia inaugurata ben prima dell’emergenza sanitaria in atto dall’Associazione Luca Coscioni.

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