Il punto di vista della GenZ sulla politica

Il punto di vista della GenZ sulla politica

di Paolo Di Falco

“Ogni vita vale un’altra vita”. Intervista alla scrittrice Edith Bruck

Paolo Di Falco

24 giugno 2022

In un contesto sempre più preoccupante per l’Europa e l’Italia, ci siamo confrontati con la scrittrice e poetessa Edith Bruck sugli orrori nazisti e sulla situazione in Ucraina.

Giugno è il mese degli esami e mai pieno come quello di quest’anno: da una parte abbiamo la maggioranza politica su cui si regge il governo Draghi in difficoltà per l’uscita dal Movimento 5 Stelle del ministro degli Esteri Luigi di Maio, dall’altra una guerra nel cuore dell’Europa che va avanti da più di tre mesi, con la conseguente crisi energetica che si abbatte anche sulla nostra Italia. E poi, in mezzo a tutto questo, si trova anche l’esame di Maturità, dove tra le tracce della prima prova scritta d’italiano c’era anche quella dedicata alla senatrice Liliana Segre e alla tragedia dell’olocausto.

Oltre alla senatrice Segre, a vivere sulla sua pelle gli orrori nazisti è stata anche la poetessa e scrittrice di origini ungheresi Edith Bruck, che dopo la guerra ha speso tutte le sue energie per raccontare ai giovani le barbarie che ha visto e vissuto, per fare in modo che non vengano dimenticate e ripetute. Un tema più che mai attuale, vista la situazione in Ucraina.

«Nascere per caso, nascere donna, nascere povera, nascere ebrea è troppo in una sola vita», è il perfetto incipit per cominciare a parlare della sua breve infanzia. La poetessa Bruck continua: «Questo è uno dei tanti versi che ho iniziato a scrivere quasi subito dopo la guerra. Nascere poveri è un grande limite: durante la mia infanzia il nazifascismo c’era già in Ungheria, infatti mio padre non riusciva a trovare un lavoro e mia madre si disperava per mettere insieme il pranzo e la cena. E poi, come sappiamo, le donne hanno avuto meno diritti degli uomini, basti pensare che ancora oggi non c’è la parità totale: essere donna voleva dire stare a casa, cucinare, curare i mariti… Dall’altra parte a pagare un prezzo molto più alto delle donne durante le deportazioni sono stati gli uomini, molte volte incapaci di gestirsi minimamente: anche se non siamo mai stati insieme nello stesso lager, ho visto centinaia di uomini morti».

«Al ritorno dalla marcia della morte, il campo di concentramento di Bergen-Belsen era ricoperto di cadaveri e lì due di questi esseri morenti mi hanno detto: ”Se sopravvivi racconta, non ci crederanno”. Ho promesso loro che lo avrei fatto ma, da circa 60 anni, non è solo per questo che racconto il mio vissuto. Quando io e mia sorella siamo tornate a casa, dopo la liberazione, non ci ascoltava nessuno, nessuno voleva ascoltare le nostre sofferenze perché, forse, era troppo presto per raccontare e la stessa accoglienza era impossibile, considerando che mezza Europa era distrutta. Non c’era spazio per i sopravvissuti e io non sapevo neanche dove andare, come mangiare, come ricominciare, come si vive di nuovo. È stato davvero molto difficile e doloroso, io e mia sorella eravamo quasi pentite di aver lottato tanto per la nostra vita, per la nostra sopravvivenza e ci siamo dette: ”Peccato che siamo sopravvissute”. E poi lentamente la vita, che è più forte di tutto, è ricominciata… Per questo credo che la vita sia la cosa più preziosa: ci siamo accorte che è proprio nei momenti peggiori che siamo più aggrappati alla vita, a un filo d’erba per salvarci e sopravvivere con tutte le nostre forze».

«Anche nei momenti più bui c’è la luce», dice la scrittrice Edith Bruck che, all’interno del suo ultimo libro Il pane perduto, vincitore del Premio Strega Giovani del 2021, ha raccontato di cinque luci: «Cinque gesti di cinque tedeschi che per me hanno significato molto: mi bastavano solamente quei due centimetri di marmellata lasciata nella gavetta che mi ha sbattuto addosso un soldato, oppure il gesto di un cuoco che mi ha chiesto come mi chiamavo. Sentirsi chiedere “come ti chiami” in un campo di concentramento dove ero solamente il numero 11152, con un paio di zoccoli e calva, ti ricorda che sei un essere umano, che esisti, che ci sei e finalmente ti senti una persona non un numero. È molto difficile provare a descrivere fino in fondo cosa significhi anche solo uno sguardo umano».

All’interno di un lager infatti, così come ribadisce Edith Bruck: «La dimensione del tempo cambia completamente: un giorno sembra un mese e sembra che non abbia mai fine. La fame ti acceca la mente, non pensi che a mangiare a tutti i costi. Alla fame si aggiunge il freddo, la selezione continua di Mengele che seguì a quella iniziale. Quando siamo arrivati ad Auschwitz c’era la selezione immediata con due file, una a destra e un’altra a sinistra, che non sapevamo dove portavano. Dopo abbiamo scoperto che nella fila di sinistra si andava direttamente alle camere a gas, mentre in quella di destra ai lavori forzati. Qui mi ha salvato un soldato che mi ha spinto a destra. Come ho fatto a sopravvivere, come si fa? Il principale problema era quello di difendere la propria vita a tutti i costi per non morire. Quando lavoravo nelle cucine in questo castello, per esempio, ci fermavano ogni mattina costringendoci ad assistere all’impiccagione di ragazzi di 12/13 anni. Questa era una crudeltà gratuita così come quella dei figli, bellissimi, degli ufficiali che ci sputavano addosso. Come loro, i ragazzi di 13/14 anni che, mentre venivamo disinfestate ad Auschwitz, ci sputavano mirando alle parti intime. Loro mi facevano pena perché sono stati loro a essere disumanizzati dalla scuola nazista, non io: io non mi vergognavo a essere nuda né di fronte a loro, né di fronte a un tedesco. Però, appena sono arrivati gli americani e ci hanno denudato per darci nuovi vestiti ho sentito, finalmente, la vergogna, segno che ero ritornata a essere umana».

Dopo la guerra Edith Bruck, insieme alla sorella, è ritornata a casa, ma: «In Ungheria non ho ricevuto nessuna accoglienza e così sono finita nel 1948 a Israele, che allora aveva appena tre mesi di vita, era un bambino dato che era nata il 14 maggio e io sono arrivata a settembre. Mi aspettavo la Terra Promessa di cui mi raccontava mia madre da bambina, ma appena arrivata ho visto che gli uomini venivano mandati a fare il servizio militare e noi donne nei campi di transito: quello non era il momento dell’accoglienza, non era il momento di poter dare qualcosa a noi sopravvissuti. Dovendo poi fare il servizio militare, a cui io sono sempre stata contraria, ho iniziato a girovagare per mezza Europa e sono capitata a Napoli. Lì, pur senza sapere una parola di italiano, mi sono piaciuti i sorrisi e gli sguardi di accoglienza, mi sentivo in qualche maniera accolta e per la prima volta mi son detta: “io qui posso vivere

«Poi mi sono trasferita a Roma dove il ricordo della guerra era molto vivo: si condivideva tutto, anche la zuppa, e qui ho iniziato a scrivere il mio primo libro, “Chi ti ama così”, sullo sgabello e sul baule con il quale avevo girato mezzo mondo. Mi ricordo che era appena arrivata la televisione e mi dicevano sempre: “ma che scrive a fare, venga con noi che c’è Mike Bongiorno”. Il libro l’ho fatto leggere al poeta Nelo Risi, che poi è diventato mio marito, e anche a Mario Luzi e Romano Bilenchi che tra loro hanno fatto una scommessa: il primo ha detto che avrei scritto per sempre, mentre secondo Bilenchi non avrei più scritto vista la mia tragica esperienza. Alla fine, evidentemente, ha vinto Luzi. Da quel momento non mi sono più fermata anche perché, secondo me, la carta sopporta tutto ciò che l’orecchio umano non può sopportare e io ero gonfia di parole visto che in Ungheria non ci avevano ascoltato»

La scrittrice, che ricorda con profondo affetto la visita a casa sua dello scorso anno fatta da Papa Francesco, attraverso la quale è stato lanciato un messaggio molto significativo, riferendosi anche a quello che sta accadendo in Ucraina afferma che: «Tutti noi possiamo in qualche piccola misura migliorare il mondo. Basta così poco a volte come parlare, spiegare: bisogna parlare con i nemici e non con quelli che la pensano come noi. Quella in Ucraina però non è una guerra, ma un massacro: rubano le lavatrici, spogliano i morti. Auschwitz non era la mia guerra, io ero vittima, io non ho visto battaglie ma ho visto solo morte, ho dormito con i morti, ho visto morire, stavo morendo, ma questa è un’altra cosa. Nessun esercito con un minimo di dignità si comporta in questa maniera. E adesso l’Europa non sa come uscirne: se da un lato è vero che, come dice Papa Francesco, più armi si danno e più si muore, dall’altro, nonostante io sia contro le armi, se lasciamo soli gli ucraini c’è il rischio che i russi occupino tutto il Paese. Non possiamo non aiutare, ma qui emerge che siamo dei razzisti: accogliamo a braccia aperte gli ucraini, giovani e con la pelle chiara come la nostra, mentre gli africani non li vogliamo. E allora siamo buoni? Non mi pare, siamo veramente razzisti. Anche qui non c’è giustizia, perché dobbiamo accogliere tutti allo stesso modo dato che anche loro scappano da guerre, torture, fame: mettiamoci in testa che ogni uomo vale esattamente come un altro, ogni vita vale un’altra vita».

Paolo Di Falco

18 anni, di Siracusa. Ho creato La Politica Del Popolo, un sito di news gestito da giovani.

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