E se una mattina, la campagna elettorale si svegliasse in un Paese senza più il gas?

Mauro Bottarelli

30 Luglio 2022 - 13:00

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Gazprom emana un comunicato sibillino, incolpando Berlino del calo dei flussi, mentre Rosatom trasferisce miliardi «sanzionati» in Turchia per la mega-centrale nucleare. Nuova manutenzione in vista?

E se una mattina, la campagna elettorale si svegliasse in un Paese senza più il gas?

All’ora di cena di un venerdì d’estate e con la stagione vacanziera nel suo momento d’oro, Gazprom decide di emanare un comunicato sibillino a spiegazione dell’abbassamento del livello delle forniture da Nord Stream 1 al 20% della capacità totale. Insomma, dopo due giorni di riduzione dei flussi, il gigante russo sente la necessità di fare chiarezza.

E il motivo appare chiaro fin dalle prime righe: ad oggi, la stazione di compressione Portovaya non è in grado di pompare più di 33 milioni di metri cubi di gas al giorno naturale per motivi tecnici, gli stessi che vede operativa solamente una unità su sei dell’impianto. Alla base del disguido, l’assenza di documentazione da parte tedesca che consenta riparazione e trasporto delle turbina della discordia, poiché quella trasmessa dalle autorità di Berlino contempla l’impossibilità per Siemens Energy di operare in tale senso in virtù delle sanzioni imposte da Ue e Regno Unito. Infine, a detta di Gazprom, l’esenzione garantita dalle autorità canadesi fa riferimento a condizioni contrattuali riconducibili a Siemens Energy Canada Limited, entità con cui il gigante energetico russo non ha rapporti ufficiali e codificati.

Insomma, cavilli. Che la Russia contrappone scientemente alle limitazioni imposte dalle sanzioni occidentali in quella che appare, giorno dopo giorno, una guerra di nervi destinata a giungere a uno stato terminale in tempi brevi. Il redde rationem garantito in prima battuta dall’accordo sul grano del Mar Nero, frutto di deroghe su trasporto e navigazione che Mosca vorrebbe divenissero il cavallo di Troia con cui forzare tout court il regime sanzionatorio. Non a caso, proprio ieri Volodymir Zelensky si è presentato al porto di Odessa accompagnato dagli ambasciatori del G7 per sovrintendere alle operazioni di carico del primo cargo. mentre infuriavano le accuse incrociate per il bombardamento della prigione di Yelenovka in cui sono morte 53 persone, fra cui - apparentemente - molti membri del battaglione Azov.

La Russia ha capito che questo è il momento di forzare la mano. Perché gli Usa, al netto delle recessione tecnica, sono ormai in campagna elettorale e hanno infatti spostato il focus geopolitico sul bersaglio grosso e mediaticamente più spendibile della disputa diretta con la Cina sulla ventilata visita a Taiwan di Nancy Pelosi. Mentre l’Europa, dal canto suo, pare recitare a soggetto, tronfia nel rivendicare il settimo pacchetto di sanzioni ma costretta a occultarlo per la vergogna, contenendo quest’ultimo solo il simbolico bando sull’import di oro russo. L’ennesimo balzo del prezzo del gas, poi, ha fatto il resto. Soprattutto, mentre la municipalità tedesca di Hannover è costretta a passare dalle parole ai fatti con le restrizioni energetiche, sospendendo l’acqua calda a palestre e piscine comunali, togliendo l’acqua alle fontane e l’illuminazione ai monumenti e invitando i cittadini a seguire le prime indicazioni temporali sull’utilizzo di luce e gas.

Ed ecco che un ulteriore segnale di forzatura dei toni e delle tempistiche giunge proprio dal Paese che ha operato da mediatore, quasi da broker dell’accordo sul grano del Mar Nero. Ovvero, la Turchia. Bloomberg rendeva infatti noto come Rosatom, azienda russa a controllo statale dedicata all’energia atomica, ha cominciato il trasferimento di fondi alla sua sussidiaria turca, la quale sta lavorando alla costruzione di una mega-centrale nucleare da 20 miliardi di dollari sulla costa mediterranea del Paese.

La scorsa settimana la Akkuyu Nuclear JSC ha ricevuto una prima tranche da 5 miliardi di dollari, cui ne seguiranno altrettanti nelle prossime due, proprio al fine di evitare che le sanzioni europee impongano un ritardo o, peggio, lo stop ai lavori. Eventualità che la Turchia non può permettersi, poiché una volta che tutti i quattro reattori saranno operativi - data stimata nel 2026 - la centrale di Akkuyu garantirà da solo il 10% della domanda interna di elettricità.

E il fatto che il progetto sia stato finanziato sia da Sberbank PJSC che daSovcombank, entrambe banche russe sanzionate dall’Ue, la dice chiara sul clima di latente e ipocrita lassismo che sta accompagnando il silenzioso e progressivo allentamento de facto del regime sanzionatorio. Oltretutto, nel pieno di una legittimazione occidentale del ruolo di mediazione della Turchia, cui Ankara risponde incassando senza battere ciglio miliardi sanzionati di Mosca. Interpellati al riguardo, sia Akkuyu Nuclear JSC che il ministero delle Finanze turco hanno opposto alle domande di Bloomberg un no comment che equivale a una conferma.

Insomma, Mosca pare essere entrata in modalità se non ora, quando. E un tale approccio configura solo due possibilità, quasi una scelta obbligata fra bastone e carota: il gas tornerà a essere mezzo con cui blandire o arma terminale di ricatto verso l’Europa, al fine di veder tacitamente ampliato a tutti gli ambiti commerciali e finanziari il regime di laissez-faire in vigore per Rosatom? Il comunicato di Gazprom, pubblicato out of the blue e volutamente in bilico fra la minaccia e la richiesta di chiarimento, pare lasciar aperti - per ora - entrambe gli scenari.

Ma il rischio di uno stop totale dei flussi, ancorché limitato e simbolico, c’è. E il dato di crescita da recessione inevitabile della Germania pubblicato ieri appare una sentenza, se collocato in questo contesto. E se la surreale campagna elettorale italiana fosse costretta a tornare con i piedi per terra e fare davvero i conti con l’unica, reale ingerenza russa sul voto? Ovvero, l’ipotesi di svegliarsi un mattino in un Paese senza più gas russo a cui dover dare delle risposte e non vendere polemiche o promesse. A meno che non si voglia prendere per buona la versione de La Stampa e credere che, di fatto, il Cremlino abbia imposto l’inserimento del termovalorizzatore di Roma nel decreto Aiuti, vera ragione della prima e insanabile frattura fra M5S e un già dimissionario Draghi.

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