Dietro al boom delle auto usate c’è lo scontro sui microchip fra Cina e Usa

Mauro Bottarelli

04/05/2021

13/07/2021 - 12:37

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I prezzi dei veicoli di seconda mano sono letteralmente esplosi negli Usa, spinti dal combinato di disponibilità finanziaria legata ai programmi anti-Covid e scarsità di nuova produzione. E se Ford ha pagato in Borsa il taglio dell’output per mancanza di semiconduttori, sottotraccia l’intero comparto automotive guarda a Taiwan. Non a caso, Paese che per l’Economist è divenuto «il posto più pericoloso sulla Terra»

Dietro al boom delle auto usate c’è lo scontro sui microchip fra Cina e Usa

Compreresti un’auto usata da quest’uomo? Negli Stati Uniti, quando si vuole testare la percezione di affidabilità di una persona, si ricorre a questa domanda paradigmatica. Perché soltanto un uomo perbene ti vende un veicolo di cui conosce le reali condizioni e l’utilizzo che ne è stato fatto, senza truccare le carte (e il conta-chilometri). Bene, oggi quel quesito - quasi la versione popolare di un rating creditizio - rischia di finire in disuso. E il motivo è plasticamente mostrato da questo grafico,

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Fonte: Bloomberg
relativo al Manheim U.S. Used Vehicle Value Index che traccia il prezzo delle auto usate negli Usa: +6,8% solo nei primi 15 giorni di aprile e +52% su base annua. E si tratta di un test più che affidabile, essendo basato su un’elaborazione dati di Cox Automotive che prende in esame i risultati delle principali aste su 20 classi differenti di automobili.

Il motivo di un record simile? Lo spiega il capo economista di Cox, Jonathan Smoke: La domanda in questo periodo sta vivendo la tempesta perfetta di stimolo: sentiment di consumo in netto miglioramento, dinamiche occupazionali in recupero, risparmi accumulati durante i lockdown a disposizione, stagione degli incentivi sul tax refund in atto e, soprattutto, il piano di sostegno federale che sta riempiendo i conti correnti. Dall’altro lato, abbiamo invece l’offerta che ha già cominciato a patire contraccolpi dai lockdown dello scorso anno, capaci di ridurre drasticamente la produzione di nuovi veicoli, mentre quelli usati segnalano un netto calo delle scorte dopo le vendite record dell’estate 2020. Ora, poi, il grande punto interrogativo: la scarsezza di semiconduttori sul mercato, destinata a diventare un elemento determinante per il mercato. E infatti, le previsioni cominciano a farsi fosche per il comparto.

Non fosse altro per il fatto che una limitazione della produzione ricade a cascata sulle dinamiche di medio-lungo termine proprio dell’usato. Non più tardi del 28 aprile scorso, Ford perse il 4% nelle contrattazioni after-hours dopo aver presentato i conti e ammesso che nel secondo trimestre avrebbe dimezzato la produzione attesa proprio a causa delle mancanza di componenti fondamentali come i chip. Un drastico peggioramento dal -17% del primo trimestre, tale da incorporare un danno economico che il CeO, Jim Farley, quantificò in 2,5 miliardi di dollari. Gli investitori non gradirono. E proprio a seguito della bandiera rossa sventolata da Ford, Morgan Stanley pubblicò un report allarmante nel quale definiva lo sbilanciamento in seno alle dinamiche di domanda e offerta di semi-conduttori destinato a proseguire anche a 2022 inoltrato: La netta variazione di outlook comunicata da Ford ha rappresentato il primo, vero profit warning legato al comparto automotive e in particolare con riferimento alla componentistica. Inoltre, possiamo tranquillamente parlare di un reality check anche nei confronti degli investitori nel compato EOM (Original Equipment Manufacturer) più in generale.

Insomma, un bel guaio. Che porta con sè almeno un paio di conseguenze tutt’altro che secondarie. La prima fa riferimento a questo grafico

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Fonte: Wall Street Journal
e a uno studio pubblicato dal Wall Street Journal il 26 aprile, dal quale si desume come i rendimenti legati ai prestiti sul settore automotive abbiano toccato l’8,6% alla fine del primo trimestre contro il 5,2% di inizio 2020 e con i tassi benchmark di fatto piatti. E lo stesso vale per società finanziarie come Ally Financial e Capital One, i cui titoli azionari stanno infatti viaggiando ben al di sopra dei massimi nelle ratio price-to-book da anni. Il problema? Quanto durerà il boom dei consumi finanziati dai sostegni federali e il contemporaneo sbilanciamento della dinamica di fornitura nel mercato dei semi-conduttori?

Ed eccoci alla seconda conseguenza, il cui respiro appare decisamente più ampio: la copertina del penultimo numero dell’Economist

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Fonte: The Economist
lascia poco spazio all’interpretazione, quando definisce Taiwan il posto più pericoloso sulla Terra. Ovviamente, il riferimento più geopoliticamente alto fa capo alle pressioni montanti da parte di Pechino per una stretta in stile Hong Kong sull’isola ribelle ma a nessuno sfugge come proprio Taiwan sia sede della TSMC Limited, leader incontrastato nella fabbricazione dei fondamentali chip per il mercato automotive, di cui Pechino ha strategicamente fatto incetta a partire dal 2019. E questi due grafici

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Fonte: Bloomberg

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Fonte: Bloomberg
mostrano quale sia la dinamica nemmeno troppo sottotraccia che ha ispirato quella copertina del settimanale britannico: se la prima immagine traccia l’ascesa al nuovo massimo storico segnata il 14 gennaio scorso dal Philly Semiconductor index, la seconda ne spiega la ragione. Ovvero, l’impennata dei titoli legati al chip equipment dopo che appunto la Taiwan Semiconductor Manufacturing (TSMC) ha comunicato una spesa in CapEx per il 2021 pari a 28 miliardi di dollari, somma definita sconcertante dalla stessa Bloomberg nella sua analisi.

E il fil rouge che legherebbe le due notizie è il fatto che la gran parte di questo investimento in capitale fisso riguarderebbe la costruzione di un impianto in Arizona, destinato a servire proprio la clientela americana di quei minuscoli ma fondamentali accessori tech. Un do ut des, insomma, riferito alla vendita di armi a Taiwan deciso da Donald Trump sul finire della sua amministrazione. Atto che la Cina ritenne inaccettabile ma che garantì a TSMC di consolidare il suo regime di out-performance rispetto ai diretti concorrenti come United Microelectronics e, soprattutto, Semiconductor Manufacturing International Corporation, la quale paga uno scotto enorme nella competizione. A differenza di TSMC, sta infatti lottando contro le sanzioni americane decise da Tesoro e Dipartimento di Stato. Insomma, dietro al picco delle valutazioni delle auto usate negli Usa c’è molto più dell’abilità di qualche rivenditore in un’assolata piazzola dell’Arizona, intento a scrivere il prezzo con il pennarello sul lunotto anteriore come nei film. E Pechino, sempre più silenziosa, lo sa.

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# Ford
# Taiwan

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