L’assist (vincolante) della Bce allo spread che il governo ha il terrore di ammettere

Mauro Bottarelli

28 Ottobre 2022 - 08:40

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Al netto di un rialzo dei tassi atteso e prezzato, l’Eurotower ha prolungato a tutto il 2023 il reinvestimento titoli in seno all’APP. Di fatto, uno scudo anti-spread senza MES o TPI. Ma non gratis

L’assist (vincolante) della Bce allo spread che il governo ha il terrore di ammettere

Paese strano il nostro. Si passano settimane a parlare di spread con la stessa frequenza e familiarità con cui si discute del tempo e del campionato di calcio e poi, quando realmente l’argomento meriterebbe attenzione, lo si ignora. Perché la vera, unica notizia uscita dal Consiglio della Bce è stata la decisione di prolungare a tutto il 2023 il reinvestimento titoli in seno al programma-ombrello di acquisti obbligazionari, l’APP.

Di fatto, uno scudo anti-spread senza necessità di accesso formale a MES o TPI. Praticamente, un mega-regalo di Natale anticipato per il nostro Paese. E per il governo appena insediato. Non a caso, il differenziale del BTP a 10 anni sul Bund pari durata è letteralmente precipitato a 205 dai 225 punti base di massimo, subito dopo la conferenza stampa di Christine Lagarde. Un rotondo -7,5% intraday.

In altri tempi, persino recenti, i telegiornali ci avrebbero aperto le edizioni della sera. E i quotidiani la prima pagina del giorno dopo. Non fosse altro per il semplice fatto che non più tardi del 10 ottobre scorso, quello stesso differenziale sui bond tedeschi era a 253 punti base. E il benchmark presentava un rendimento pericolosamente oltre la quota del 4,7%.

Perché allora tanto silenzio? Inutile prendersi in giro: il rialzo di altri 75 punti base era già annunciato e ampiamente prezzato dai mercati, un qualcosa che appariva scontato come il fatto che Natale cada il 25 dicembre. Stessa cosa per le variazioni delle regole che sovrintendono i prestiti TLTRO per il sistema bancario, note da almeno due settimane tramite le solite indiscrezioni di stampa. E se in quest’ultimo caso qualcuno vede un chiaro motivo di tensione sulla liquidità fra sistema bancario e Bce, giova ricordare che all’aumento retroattivo del tasso di interesse richiesto a partire dal 23 novembre prossimo, Francoforte ha affiancato un fitto calendario di early repayments.

Tradotto, l’uscita di sicurezza. Ovvero, si può saldare quel debito in anticipo e in toto, evitando lunghi mesi di esborsi e oneri. L’unico problema? Un evidente prodromo di credit crunch, stante le tensioni sull’interbancario e il clima macro pre-recessivo. Ma se si vuole impostare un chicken game esattamente parallelo a quello della Fed, al fine di garantirsi uno stop ai rialzi già a inizio 2023, occorre correre qualche rischio calcolato. E almeno una vittima sacrificale appare necessaria, quindi meglio che sia quella più abituata a un lungo periodo di camera di compensazione delle tensioni. Piuttosto che soggetti di facile infiammabilità.

Perché la mossa della Bce non va intesa come un regalo a Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, poiché ritenute particolarmente simpatiche o meritevoli di un premio. E nemmeno uno sgarbo a una Germania talmente indebolita dalla crisi economica interna da vedere la Bundesbank tramutata da tigre in gattino. La mossa di Francoforte risponde infatti a una chiara esigenza: evitare che un’esplosione del rendimento dei BTP o dei Bonos spagnoli si traduca nel detonatore di uno scenario di stampo britannico.

Ovvero, una crisi da margin calls per banche, assicurazioni e fondi pensioni che ancora incorporano a bilancio detenzioni troppo ampie di quella carta, in grado di far saltare i modelli di VaR e generare rischi di insolvenza sulla catena di controparte. Insomma, la Bce ha disinnescato un rischio sistemico e non recapitato un cadeau di benvenuto al governo Meloni.

Il quale. anzi, pare terrorizzato da quanto accaduto. Tanto da evitarne totalmente la trattazione. Perché? Semplice. Nonostante la deroga concessa dalla Commissione UE a Roma per la presentazione del DEF, rinviata a fine novembre proprio per lo stallo operativo legato alla formazione del nuovo esecutivo, ora Giorgia Meloni deve trovare la quadra fra esigenze di un Paese allo stremo per il caro-bollette e vigilanza di Bruxelles sui conti.

Tradotto, il governo per un eventuale nuovo decreto aiuti può fare affidamento solo sui 10 miliardi di tesoretto lasciato da Mario Draghi. E dall’Europa, proprio alla luce dell’assist sullo spread e sui costi accessori allo stock di debito, ora si attendono che Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti tengano fede alla loro promessa: nessuno scostamento di bilancio.

Ovvero, mani legate. E se l’uscita leghista di priorizzare l’aumento al tetto del contante non depone a favore di una presa di coscienza delle reali priorità e del momento economico che l’eurozona sta vivendo, nessuno ha potuto ignorare come la mossa Bce a sostegno degli spread periferici sia giunta in contemporanea con il disastroso aumento di capitale di MPS, il cui titolo è sceso sotto i 2 euro di prezzo fissato per la nuova emissione. E, soprattutto, ha visto accendersi proprio il faro delle autorità europee dopo la denuncia di un fondo britannico.

L’accusa? Volgarmente parlando, l’aumento di capitale senese sarebbe solo una partita di giro con cui MPS starebbe ricomprandosi da sola. E con commissioni sproporzionate da incassare. Guarda caso, il Financial Times ha trattato la materia con il clamore degno di una nuova Lehman o Archegos. Segnali, insomma. Molto chiari. La Bce ha deciso di utilizzare la carota con Roma, stante anche la necessità di disinnescare nuovi, potenziali 2011. Ma il bastone resta ben in vista.

E adesso, terminati i discorsi pieni di retorica e trasporto alle Camere, occorre incasellare i numeri del DEF. Occorre governare. E l’asse Bruxelles-Francoforte ha voluto ricordare a Roma come la modalità da schema libero sia valida e consentita solo per la Settimana enigmistica. Ecco perché quello spread a precipizio non ha fatto notizia.

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