Trasferimento sede di lavoro: quando il dipendente può rifiutarsi?

Claudio Garau

28 Settembre 2021 - 17:30

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Il trasferimento sede di lavoro è possibile ma entro certe condizioni. In caso di illegittimità, lavoratore può tutelarsi facendo ricorso presso il giudice del lavoro.

Trasferimento sede di lavoro: quando il dipendente può rifiutarsi?

Il trasferimento della sede di lavoro consiste in uno spostamento definitivo del dipendente senza limiti di durata da un posto di lavoro ad un altro. Come si può facilmente immaginare, si tratta di un avvenimento che influisce in modo rilevante sulla vita anche extra professionale del lavoratore, in special modo se questi ha una famiglia.

Ebbene, si tratta di un istituto regolato dalle norme vigenti di diritto del lavoro, di cui può usufruire il datore di lavoro o azienda. Ma il trasferimento della sede di lavoro, ossia la modifica della località in cui il dipendente svolge le mansioni di cui al contratto di lavoro, non può avvenire a totale discrezione del datore. Vi sono infatti dei limiti di cui tener conto.

Di seguito vedremo dunque come funziona il meccanismo del trasferimento del lavoratore e che cosa il dipendente è giusto che sappia per tutelare al meglio i suoi legittimi diritti di lavoratore.

Trasferimento della sede di lavoro: il contesto di riferimento

Il trasferimento della sede di lavoro costituisce un potere datoriale che permette all’azienda di rendere più efficiente l’apparato delle proprie risorse e di potenziare l’organizzazione.

La sede di lavoro è un elemento essenziale del contratto di lavoro, che è oggetto di accordo tra datore di lavoro e lavoratore al momento dell’assunzione. Ma è pur vero che, nel corso del tempo, le esigenze aziendali possono variare e il datore di lavoro può intimare il trasferimento sede di lavoro. Che cosa succede in caso di rifiuto del lavoratore di trasferirsi? Lo vedremo a breve.

Vero è che l’esercizio del potere di trasferimento è assistito dal baluardo dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali, ma entro certi limiti.

Esso è disciplinato dall’art. 2103 c.c. secondo cui il trasferimento della sede di lavoro, ossia da un’unità produttiva a un’altra, può essere compiuto soltanto in presenza di “comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive”.

Parafrasando i contenuti dell’articolo citato, un lavoratore può essere legittimamente trasferito esclusivamente a patto che l’azienda possa provare, ad esempio, che la presenza del dipendente nella sede di provenienza non è più utile o che è doverosa la sua particolare professionalità nella sede di lavoro di destinazione. In queste circostanze, le ragioni poste alla base della decisione aziendale hanno un fondamento (si veda ad es. Cass. 1383/2019).

In linea generale, può dirsi che resta ferma l’insindacabilità della scelta del datore di lavoro tra varie soluzioni organizzative possibili.

Proprio per concedere al lavoratore il giusto tempo per riorganizzarsi e cambiare la propria città, vi sono dei CCNL che impongono alle aziende di rispettare un termine di preavviso prima di rendere effettivo il trasferimento.

Ma, come acclarato da autorevole giurisprudenza, sebbene il provvedimento di trasferimento non implichi alcun onere di forma e non debba per forza includere l’indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia il dovere di rispondere al lavoratore che li domandi, nel caso in cui sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che hanno condotto alla scelta (Cass. 614/2019).

Trasferimento sede di lavoro e rifiuto del dipendente: l’impugnazione

La sede di lavoro non permane per forza identica nel tempo: le parti possono in ogni momento di modificarla consensualmente. Ma se a decidere di variare la sede di lavoro è il datore di lavoro in via unilaterale, ecco un caso di trasferimento della sede di lavoro.

Poniamo l’ipotesi per la quale il dipendente riceva una lettera di trasferimento in una sede di lavoro molto lontana dalla propria residenza e dalla famiglia. Certamente, in molti casi il lavoratore non avrà intenzione di trasferirsi, e penserà subito a rifiutare il trasferimento. Ma la domanda consequenziale è se il rifiuto del trasferimento può costare il posto di lavoro, ovvero sussiste il rischio di essere licenziati?

Vero che il luogo di lavoro è un elemento essenziale del contratto di lavoro, che, con frequenza, condiziona la stessa volontà del lavoratore a dire sì a una certa occupazione. D’altronde ben si sa che intorno alla località dove lavora, il lavoratore organizza la propria vita personale e familiare.

Il dipendente potrà tutelarsi contro la decisione unilaterale, impugnando il trasferimento in via stragiudiziale. Per farlo, il lavoratore dovrà, autonomamente o con il supporto di un legale o di un sindacato, redigere una lettera all’azienda con la quale contesta l’effettiva sussistenza delle ragioni dello spostamento, denunciando altresì l’illegittimità della decisione datoriale. Se ciò non dovesse bastare a tutelare le proprie ragioni, il dipendente, attraverso il suo avvocato, dovrà depositare nella cancelleria del giudice del lavoro un ricorso con il quale domandare al tribunale di accertare e dichiarare l’illegittimità del trasferimento sede di lavoro.

Da parte sua, l’azienda dovrà obbligatoriamente dare la prova delle esigenze organizzative, tecniche e produttive collegate al trasferimento sede di lavoro. Da rimarcare infatti che l’onere della prova è gravante sul datore di lavoro.

Rifiuto del trasferimento sede di lavoro: scatta il licenziamento?

Nella prassi, i casi di rifiuto del trasferimento sono tutt’altro che rari. Ebbene, che succede al lavoratore che impugna il licenziamento? Rischia davvero il posto? Ebbene, vi è da dire che sul punto specifico la Cassazione è giunta a conclusioni differenti.

Secondo un filone giurisprudenziale, il dipendente non potrebbe mai opporsi e dire no al servizio presso la nuova sede di lavoro, giacché la modifica del luogo di esecuzione della prestazione di lavoro è inclusa nel potere direttivo e organizzativo del datore.

In ragione di ciò, il dipendente dovrebbe anzitutto trasferirsi, rispettando l’ordine aziendale, e soltanto poi, se considera che il trasferimento sia illegittimo, impugnare il provvedimento del datore innanzi al giudice del lavoro. Se questi darà ragione al dipendente, dichiarando l’illegittimità deltrasferimento, egli potrà fare ritorno alla sede precedente.

Invece, secondo un differente filone della Cassazione, laddove il trasferimento sede di lavoro sia illegittimo, perché in esso non vi sono le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dalla legge, è comunque conforme alla legge il comportamento del dipendente che rifiuta di trasferirsi nel nuovo luogo di lavoro. Perciò per lui non si paleserebbe insomma alcun rischio licenziamento.

Si tratta di un passaggio assai delicato in tema di trasferimento della sede di lavoro, giacché tante volte in ipotesi di rifiuto del trasferimento l’azienda considera il lavoratore assente ingiustificato - non essendo questi operativo nella nuova sede - orientandosi al licenziamento per giusta causa.

Concludendo, è l’adesione a un filone o all’altro che può condurre a esiti o favorevoli o sfavorevoli per il lavoratore. In linea generale, l’azienda dovrà essere sempre in grado di giustificare la scelta del trasferimento, in modo da non essere ritenuta responsabile di abusi o ritorsioni, come ad es. nel caso di provvedimenti aventi la mera finalità di punire un dipendente sgradito.

Da parte sua, il dipendente potrà tutelarsi, rivolgendosi al giudice del lavoro, qualora sostenga che la scelta datoriale è illegittima o comunque pregiudizievole per i suoi diritti di lavoratore.

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